venerdì 25 gennaio 2008

BRIGANTAGGIO IN CALABRIA: Domenico Straface detto Palma. Di Maria R. Calderoni

Il brigante, in Calabria, col pino e col lupo, faceva parte del paesaggio: era un truce eroe popolare, che, quando si dava alla macchia, non faceva una scelta, ma subiva un destino tragico. E questo terribile eroe rappresentava la vendetta per tutte le umiliazioni che gli altri, i miti e i deboli, dovevano subire". Così nel libro di Salvatore Scarpino ("Indietro Savoia! ", Leonardo) si introduce il capitolo sul brigantaggio in territorio calabrese, teatro delle gesta di Domenico Straface detto Palma. Un teatro affollatissimo, tra il 1860 e il 1870, dove i ribelli contadini organizzati in bande agguerrite e i reparti dell’esercito piemontese, rafforzati da carabinieri, squadriglieri e guardia nazionale, si diedero spietatamente la caccia per tutto il decennio. Con rappresaglie e eccidi da entrambe le parti.

Il generale Pallavicini
Gran fucilatore e inflessibile propugnatore di repressioni indiscriminate fu qui il gen. Emilio Pallavicini, lo stesso che l’anno prima aveva bloccato e catturato Garibaldi sull’Aspromonte, l’uomo che coi suoi reparti di guardie nazionali aveva attaccato per 35 volte le bande a cavallo del temibile Michele Caruso; l’inventore, in pratica, della nuova tattica antibrigantesca basata sulla "persecuzione incessante". Ma i banditi calabresi resistevano alla grande. Preti ricchi, baroni, avvocati, proprietari terrieri sono la loro preda; e sequestri, assalti alla diligenza, estorsioni, razzie e uccisioni di bestiame sono pane quotidiano. "La strada per Napoli di fatto era una sola, eppure non si riusciva a controllarla; le carrozze private e le corriere postali venivano sistematicamente assalite. Nel marzo 1865 fu attaccato un convoglio che portava a Catanzaro il procuratore generale del re, Camillo Longo... Fu una stagione infernale.". Una situazione che nell’agosto 1864 così sintetizza Vincenzo Padula ("Il brigantaggio in Calabria, 1861,1864", Padula): "Finora avemmo i briganti. Ora abbiamo il brigantaggio; e tra l’una e l’altra parola corre grande divario. Vi hanno briganti quando il popolo non li aiuta, quando si ruba per vivere e morire con la pancia piena; e vi ha il brigantaggio quando la causa del brigante é la causa del popolo, allorquando questo lo aiuta, gli assicura gli assalti, la ritirata, il furto e ne divide i guadagni. Ora noi siamo nella condizione del brigantaggio". Tra i tanti capibriganti della zona - da Pietro Corea (sequestrò un giudice, un deputato e due avvocati in un colpo solo), a Pietro Bianchi (uso a mozzare orecchie), Giovanni Bellusci e Bruno Pinnolo fucilati nel gennaio 1865, a Ferdinando Saccomanno "aiutante di campo" di Michele Caruso, ecc. - uno degli ultimi a morire è lui, appunto Domenico Straface detto Palma. Una biografia simile a quella di tanti altri: poverissimo contadino originario di Longobucco, Sila, si dà alla macchia nel 1847 poco più che ventenne, aggregandosi a varie bande (si dice che nel 1860 avesse tentato di offrirsi ai capi del nuovo governo come informatore, ma venne respinto). Muovendosi tra la Sila e la costa jonica fino alla Basilicata, ormai a capo di una banda propria, Palma riuscirà a tenere la campagna per oltre vent’anni. Gli danno la caccia con accanimento e lui non si sottrae agli scontri. Inseguito sulla Sila, per sganciarsi uccide quattro squadriglieri. Un’altra volta mentre è nei boschi con pochi gregari e una donna, i carabinieri lo circondano con 400 uomini; ma Palma come sempre riesce a filarsela.

L’agguato
Ha fama di imprendibile, è la Primula Rossa della Sila, un Eroe contadino. La gente lo crede dotato di protezioni magiche, lo salvano, raccontano, pietre, alberi, fossi; é un brigante di bella presenza e ardito, che colpisce la fantasia popolare. Un tipo originale, con un tocco di teatralità. "Il suo vestimento aveva qualcosa di bizzarro. Pantaloni fasciati rossi e blu e guarniti di madreperla; giubbone alla cacciatora con quattro fila di lire acconciate a bottoni e cadenti dal bavero in giù; cappello calabrese invellutato; due colpi e pistola inglese montati in argento, e coltella col manico intarsiato dello stesso metallo". Non alto, robusto, lineamenti ben fatti, Palma muore nel luglio 1869, sul ciglio del grande bosco di Macchia Sacra, sulla Sila. Muore come é nel suo destino di brigante, per la vile spiata. La lotta alle bande quell’anno é affidata al colonnello Bernardino Milon, capo di stato maggiore del gen. Sacchi. Dice di lui Franco Molfese ("Storia del brigantaggio dopo l’Unità", Feltrinelli): "Rinnovò i bandi e i metodi del Fumel con vera e propria ferocia e senza alcun scrupolo per la violazione delle garanzie legali". Bernardino Milon era uno che lavorava bene anche sul versante degli infiltrati e della delazione (in gran parte grazie alle taglie esorbitanti che pendono sulla testa dei principali "capi"), ed era quindi riuscito a trovare l’uomo della soffiata al momento giusto. Il momento giusto arriva quella sera, 12 luglio 1869.

Era "fatato"
Il brigante imprendibile quella sera, stanco e in compagnia di un solo uomo, si era appena inoltrato nel bosco, quando gli si para davanti un gruppo di carabinieri che sono lì appostati ad attenderlo. A sparargli é il guardiano del barone Guzzolini, tale Pietro Librandi; Palma é ferito non mortalmente, però é costretto a ripararsi in un fosso. "Per tutta la notte il ferito si lamentò, ma nessuno osò avvicinarglisi, aveva ancora il fucile. All’alba un carabiniere si fece sotto e gli spedì una palla pietosa. Pietro Librandi ebbe un premio di oltre 10.000 lire, una fortuna". "Era reputato di indole poco efferata e sanguinaria. Era contadino laborioso ed ossequiente: fu spinto al malandrinaggio dalle insinuazioni malvage dei tristi, che provocano il brigantaggio per specularvi. Presso il volgo godeva prestigio e popolarità; le donnette favoleggiavano di lui chiamandolo santo, fatato, invulnerabile e invincibile; aveva saputo procurarsi queste false credenze con continuate, generose elargizioni, e tenendo osservanza a un tenore di vita parco e temperato". Questo il "coccodrillo" che un giornale di Catanzaro qualche giorno dopo l’uccisione pubblicò in memoria del brigante Palma, Primula Rossa della Sila.

"Proclama"
"Catanzaresi, Alle promesse lusinghiere succedette il disinganno, alla ricchezza la povertà, alla libertà la schiavitù. Eccoci o calabresi al disinganno del dolore, all’Iliade più amara, sol chi è cieco non vede là dove ci han condotti i falsi liberali, quelli appunto che mettendosi un cencio rosso cercarono ed ebbersi la pagnotta. E di fatto, se non fu violento il Plebiscito, perché il malcontento di tutte le classi, meno la classe pagnottizia? Dov’è la ricchezza se l’erario è smunto, se spoglie sono tutte le casse pubbliche, depauperata la più ricca fra le metropoli, Napoli? Dunque, o calabri, ai fatti. Lo sanno gli scherani del Re Sabaudo; lo sanno i raccogliticci e melensi carabinieri; lo sa infine la piumata Guardia Nazionale che ad altro non è buona che a fare la sua comparsa plateale, ebbene noi marceremo...". Il proclama è firmato dal "generale in Capo Muraca Luigi", uno dei più famosi briganti calabresi: sarà fucilato nel 1865

di: Maria R. Calderoni - da: Liberazione martedì 30 luglio 2002

1 commento:

Pino Berardi ha detto...

Il Piave mormorò (inno del napoletano Ermete Giuseppe Gaeta): “non passa lo straniero...” e si inchinò commosso e grato ai piedi delle centinaia di migliaia di martiri terroni siciliani, calabresi, lucani, campani, pugliesi, abruzzesi che sono andati a farsi massacrare in difesa del Sacro Suolo dell’Italia Unita, ignari di darsi in olocausto in difesa dei voraci interessi del capitalismo padano di ieri e di oggi.

Antonio Grano