martedì 27 ottobre 2009

Le scorie sepolte a colpi di dinamite L' affare finito dopo il caso Alpi


I profitti Il procuratore Macrì: con questi traffici la ' ndrangheta ha realizzato profitti enormi fino all' inizio degli anni Novanta

MILANO - «Dov' è la sorpresa?». Lo sappiamo da anni, dice Vincenzo Macrì. Il procuratore aggiunto presso la Direzione nazionale antimafia esibisce una giusta dose di cauto ottimismo mischiata ad una consapevolezza che deriva da decenni passati alle prese con le mafie calabresi. La scoperta del mercantile affondato al largo dalla costa di Cetraro può essere la conferma ulteriore di qualcosa che si conosce già da tempo. La ' ndrangheta si occupa di rifiuti. Attività che è sempre stata sepolta nel profondo, sotto una coltre di omertà. Numerosi pentiti hanno raccontato il business «ecologico» delle cosche, ma non sono mai emersi elementi di riscontro certi sull' ubicazione delle scorie. Il luogo della sepoltura, quello non s' è mai trovato. «Sappiamo ad esempio che molte località dell' Aspromonte sono un giacimento di rifiuti. Ma nessun collaboratore di giustizia ha mai saputo indicare con precisione un sito». Le navi carretta affondate negli anni Ottanta e Novanta e oggi adagiate nei fondali del Mediterraneo a circa 200 metri di profondità sembravano essere diventate una specie di leggenda urbana, una chimera moderna. Nel 2007, il notevole quantitativo di metalli pesanti rilevato nel pescato proveniente dalle coste tirreniche della Calabria destò sospetto, ma la circostanza rimase al livello embrionale di indizio. Mancava la prova. Ad oggi, l' unico punto fermo sull' esistenza di un traffico illegale che ha portato fiumi di denaro alle cosche, era il sotterramento di 30.000 tonnellate di ferrite di zinco, rifiuti speciali provenienti da un' azienda di Crotone, presi in gestione dalle ' ndrine e sepolti nei campi tra Cassano Ionio e Cerchiara di Calabria. Una specie di Gronchi rosa. Adesso le cose potrebbero cambiare. Le parole di Francesco Fonti, il pentito che in una sua memoria è stato il primo a parlare di «navi a perdere» che venivano affondate con la dinamite, potrebbero essere lette in una nuova luce. L' ex trafficante di stupefacenti, originario della Locride, collabora dal 1995. Ha sempre parlato di rifiuti, con i giudici di Cosenza e quelli di Milano, ma gli inquirenti, pur credendolo affidabile, non sono mai riusciti a trovare pezze d' appoggio per le sue rivelazioni. «Forse - dice Macrì - se il rinvenimento di ieri viene confermato per quello che è, siamo davanti ad una prima volta, molto importante. Una scoperta fondamentale per ricostruire il passato». Il passato, perché di questo si tratta. I rifiuti sono stati l' oro della ' ndrangheta, il propellente che negli anni Settanta e Ottanta ha permesso alla mafia calabrese di arricchirsi smodatamente. Dice Macrì: «Mentre la camorra si è concentrata sui rifiuti solidi urbani e secondariamente sulla monnezza "sporca", la ' ndrangheta ha trattato sempre e soltanto rifiuti tossici, autentiche bombe ecologiche». All' inizio degli anni Novanta c' è stata la ritirata, anch' essa certificata dalle parole di alcuni pentiti. Uno di loro identifica lo spartiacque nella morte di Ilaria Alpi. La vicenda della giornalista del Tg3 uccisa in Somalia accese i riflettori sui traffici illegali di rifiuti ad alto potenziale venefico. Una pubblicità indiretta che allarmò qualche capobastone. Aumentò la pressione degli inquirenti, vi fu qualche protesta dal territorio, perché l' elevata tossicità del materiale interrato o inabissato danneggiava le famiglie stesse dei mafiosi. Macrì è categorico: «La stagione delle scorie gestite dalle cosche è finita da un pezzo. Ma costituisce uno dei periodi meno conosciuti della mafia calabrese. Con questo business la ' ndrangheta ha realizzato profitti enormi, che le hanno permesso di internazionalizzarsi e di diversificare all' estero le proprie attività. È diventata il colosso criminale di oggi grazie ai rifiuti tossici. E al cortese aiuto fornito da aziende, imprenditori e amministratori pubblici, complici o conniventi». Marco Imarisio RIPRODUZIONE RISERVATA La scheda La nave Il relitto di una nave è stato trovato a 14 miglia dalla costa di Cetraro (Cosenza). Potrebbe essere la Cursky, la nave di cui parlò anni addietro il pentito dell' ndrangheta Francesco Fonti Il robot Un robot sottomarino (foto) si è calato a 480 metri di profondità per fotografare il relitto. Dallo squarcio a prua fuoriescono due fusti

Imarisio Marco
Pagina 19(13 settembre 2009) - Corriere della Ser

martedì 20 ottobre 2009

Memorie “tossiche “di un pentito.

Di Giovanni Tizian

Francesco Fonti è un pentito di ‘ndrangheta dal 1994. Non apparteneva ad una famiglia mafiosa era semplicemente un affiliato di ‘ndrine potenti, quali quelle di Siderno e di San Luca.

Durante i suoi primi anni di collaborazione ha prodotto un memoriale in cui si svelano oltre ai soliti traffici anche le nuove frontiere del commercio illegale. Nel memoriale,infatti , Fonti parla di smaltimento di rifiuti tossici. Scorie radioattive da occultare in fondo al mare, in Somalia o nel brullo e misterioso Aspromonte.

Il Fonti si attribuisce tra il 1980 e il 1990 molti dei traffici avvenuti su ordine di alcune ‘ndrine. “Le scorie- dichiara Fonti- erano smistate dal centro Enea di Rotondella, in Basilicata” e probabilmente finite in Somalia. Ipotesi tenuta in considerazione anche dagli inquirenti che indagano sul duplice omicidio dei reporters Ilaria Alpi e Milan Hrovatin. I due giornalisti uccisi in Somalia si presume fossero a conoscenza dei loschi traffici rifiuti-dollari tra Italia e Somalia.

La dinamica è tanto semplice quanto disumana: lo stato italiano tramite la ‘ndrangheta trasportava le scorie fino in Somalia dove successivamentevenivano magicamente smaltiti. Non aveva importanza dove venissero occultate le scorie, se in mezzo ai campi o in fondo al mare, non interessava neanche la salute della povera gente già afflitta da miseria e disperazione, ciò che più importava era il denaro e le armi.

Le indagini rivelano uno spaccato inquietante ancor più alla luce degli avvisi di garanzia emessi in questi giorni dalla direzione antimafia di Potenza a carico di otto ex dirigenti del centro dell’Enea della Trisaia di Rotondella e di due presunti affiliati alla ‘ndrangheta. Tra i reati ipotizzati ci sono lo smaltimento dei rifiuti tossici, il commercio di armi, il traffico di sostanze radioattive e la produzione clandestina di plutonio. Il plutonio, secondo gli inquirenti, sarebbe stato passato dalla mafia calabrese all’Iraq di Saddam Hussein, all’epoca in pace con gli Usa eritenuto dall’occidente alleato “democratico”.

Secondo quanto riportava la Gazzetta del mezzogiorno risulterebbero indagati, tra gli ex dirigenti Enea, Giuseppe Orsenigo, Raffaele Simonetta, Bruno dello Vicario, Giuseppe Lapolla, Giuseppe Rolandi, Giuseppe Lippolis e Tommaso Candelieri.

Con loro sono indagati due appartenenti alla ‘ndrangheta Bruno Musitano della ‘ndrina di Plati il cui capo, prima di essere ucciso, era Domenico Musitano detto “u fascista”e Giuseppe Arcadi. Musitano e Arcadi sono citati nel memoriale di Fonti. Nel materiale inviato alla Direzione nazionale antimafia da parte del pentito si trovala spiegazione dell’enorme potere d’infiltrazione delle ‘ndrine ioniche.

Le dichiarazioni erano state pubblicate da L’espresso nel 2005 e riguardavano gli affari illegali delle ‘ndrine di San Luca con gli alti poteri dello Stato. “Nirta mi spiegò- scrive Fonti- che gli era stato proposto dal ministro della Difesa di stoccare bidoni di rifiuti tossici. L’ipotesi era quella di sotterrarle in alcuni punti dell’Aspromonte e nelle fosse naturali marine che c’erano davanti alla costa jonica della Calabria.” Le diverse ‘ndrine si ritrovarono per pianificare il progetto lucroso a Polsi senza tuttavia mettersi d’accordo su un azione unica. Ogni famiglia, secondo le dichiarazioni del Fonti, avrebbe provveduto in piena indipendenza ai propri traffici.

Fu così che Fonti cominciò a lavorare per la famiglia Musitano di Platì. Il capobastone era Domenico Musitano, “u fascista”, il quale non potendo tornare in Calabria risiedeva a Nova Siri in Basilicata e chiese a Fonti di “ far sparire 600 bidoni contenenti rifiuti tossici e radioattivi. Mi spiegò- continua Fonti- che era stato avvicinato da uno dei dirigenti dell’Enea, Tommaso Candelieri ( tra gli indagati), che aveva l’urgenza di far sparire questi fusti che erano depositati in due capannoni dell’Enea stessa. Quanto ai soldi, avrei dovuto intascare 660 milioni “.

Per quanto riguarda il trasporto Fonti scrive :” Come appoggio, Musitano mi diede la disponibilità del genero, Giuseppe Arcadi, il quale mi aiutò trovare i camion e gli autisti per il trasporto dei rifiuti.” La pianificazione era perfetta, ma qualcosa cambiò le carte in tavola : “u fascista” venne ucciso davanti al tribunale di Reggio Calabria e l’affare fu rinviato di pochi mesi. Nel 1987 , tra il 10 e l’11 gennaio, l’operazione “tossica” è stata portata a termine. Il memoriale venne fuori diciotto anni dopo, provocando, allo stesso tempo, polemiche tra i politici riguardo l’attendibilità dei pentiti enuove indagine dai possibili risvolti eclatanti.

Francesco Fonti ècollaboratore di giustizia dal 1994. Dalle indagini e dalle sue dichiarazioni risulta essere elemento di spicco della ‘ndrangheta nel traffico di stupefacenti nel Nord Italia. Tra Modena, Reggio Emilia e Milano il Fonti reggeva il traffico di droga per la ‘ndrina dei Romeo, il cui boss era Sebastiano Romeo detto “u staccu”, molto vicini ai Nirta, altra storica famiglia ’ndranghetista. Non sempre le sue dichiarazioni sono state ritenute veritiere, tuttavia in alcune descrizioni gli elementi di rilievo coincidono con le indagini fatte e con le dichiarazioni degli altri, se pur pochi, pentiti della ‘ndrangheta. Riguardo, ad esempio, un omicidio di un bancario avvenuto a Locri nel 1989 il Fonti lo giustifica come omicidio avvenuto a causa di un opposizione a vari tentativi di richiesta di riciclaggio da parte di Barbaro di Platì.

Nonostante tali dichiarazioni le indagini insistevano nel percorrere il binario del delitto passionale che però lasciava vivi molteplici dubbi e innumerevoli domande. L’evidenza della dinamica, entro cui è maturato quello omicidio, e le confessioni del pentito Fonti non sono state sufficienti a far aprire le porte alla verità. La vittima era responsabile dell’ufficio fidi e venne ammazzato in macchina mentre tornava da lavoro. Si trattava di una tipica esecuzione mafiosa ma venne fatta passare come altro.

Nel 1989 non esisteva neanche la legge 197 / 1991 sull’antiriciclaggio perciò risulta semplice capire come le banche, in Calabria, erano vere e proprie lavanderie di denaro sporco, e l’opposizione da parte di un impiegato all’illegalità mafiosa non era praticabile se non a rischio della propria vita. Chi si opponeva al riciclaggio o alla concessione di un fido senza garanzie doveva morire, ecco le regole che il pentito Fonti dimentica di raccontare, volutamente per coprire i pesci grossi o involontariamente perché soffre di amnesia.

Fantasie sui rifiuti o cruda realtà ? Se le indagini vanno avanti vuol dire che qualcosa è emerso dalle torbide acque del malaffare. Di certo ci sono gli avvisi di garanzia firmati da Francesco Basentini, sostituto procuratore della direzione antimafia lucana. Il fascicolo apparteneva, prima che fossero trasferiti a causa del coinvolgimento nell’inchiesta “toghe lucane”, al procuratore della dda potentina Giuseppe Galante e dal suo sostituto Felicia Genovese.

I rifiuti tossici sono la nuova fonte di guadagno da parte della ‘ndrangheta e non più solo monopolio della camorra. Gli introiti si raddoppiano con il traffico dei rifiuti. Più “monnezza”produciamo più soldi entrano alle due organizzazioni criminali che dalla spazzatura estraggono oro. Le responsabilità sono anche degli imprenditori del Nord, quelli che fingono di essere socialmente responsabili e poi per pagare la metà di tasse sui rifiuti si affidano alle mafie per smaltire il loro “schifo”tossico e puzzolente imputridendo le terre e gli animi altrui.

http://www.democrazialegalita.it/giovanniT/tizian_Pentito_Francesco%20Forte_scorie%20radioattive=11ottobre2007.htm

Morabito insiste: " Nirta fra i rapitori di Moro "

Morabito Saverio parla di nuovo del caso Moro Aldo al giudice del processo Moro quater: Nirta Antonio, detto N' Toni Due Nasi, fu infiltrato tra le Brigate Rosse. le dichiarazioni dell' altro pentito Inzaghi Mario 48 anni

Il pentito torna a coinvolgere il generale Delfino. Riscontri sui legami tra il boss e i carabinieri TITOLO: Morabito insiste: "Nirta fra i rapitori di Moro"- MILANO . Dieci ore di interrogatorio. Parla Saverio Morabito, il pentito della ' ndrangheta che con le sue confessioni ha fatto scattare poche settimane fa un blitz da quasi 200 arresti. E parla di nuovo del caso Moro. Stavolta con il giudice Antonio Marini, pm al processo Moro quater, che lo interroga come semplice teste in un rifugio segreto, sotto la protezione della Dia. Morabito ripete quanto gia' raccontato al pm milanese Alberto Nobili: "Seppi che grazie ai suoi contatti con i servizi, e verosimilmente con il generale Delfino, Antonio Nirta fu infiltrato tra le Brigate rosse e fu fisicamente presente al sequestro dell' onorevole Moro. Ho saputo tutto questo da Domenico Papalia e Paolo Sergi". Due uomini d' onore, dunque, gli avrebbero fatto queste rivelazioni. E Morabito le ripete ancora, con tutto il loro carico di polemiche, veleni e polveroni, aggiungendo spiegazioni, dando chiarimenti ad Antonio Marini. Davvero un boss della ' ndrangheta come Nirta, soprannominato Toni Due Nasi, entro' in scena la mattina di via Fani? E credibile Morabito? Per i giudici di Milano la risposta e' "si' ". Proprio ieri le sue confessioni hanno trovato un riscontro prezioso. S' e' pentito pure un suo socio di sempre, un vecchio compagno d' armi e di sequestri come Mario Inzaghi, 48 anni, emiliano, trapiantato a Corsico, da sempre vicinissimo ai clan calabresi che dettano legge nell' hinterland di Milano. Inzaghi ripete: "Si' , sapevamo che Nirta era un collaboratore dei carabinieri. Era un organizzatore di sequestri. In seguito, diverso tempo dopo, seppi il perche' dei fallimenti e degli arresti per quei sequestri. Nirta faceva il doppio gioco. Gia' all' epoca mi era sembrato assai strano che solo lui fosse rimasto fuori dal giro degli arresti". La polemica ha coinvolto gia' nelle scorse settimane il generale Francesco Delfino, che al tempo dei rapimenti organizzati dai calabresi comandava il nucleo operativo di Milano. Delfino, che s' era distinto proprio per la sua abilita' nel risolvere i sequestri di persona, e' stato interrogato da Nobili e ha spiegato: "Si' , ho saputo poi che Nirta era un informatore del nucleo operativo, nell' Arma circolava questa voce. Ma non era certo un mio confidente. Io non lo conoscevo". Intanto le confessioni di Inzaghi producono i loro effetti. Su richiesta di Nobili, il gip Guido Piffer ha fatto partire 7 ordini di cattura. Nell' elenco c' e' Antonio Nirta e, con lui, Michele Amandini, Agostino Catanzariti, Rocco e Antonio Papalia, Vincenzo Saffioti, Domenico Trimboli. Grazie a Inzaghi i giudici ricostruiscono la storia di due sequestri di persona del maggio ' 77: quello di Angelo Galli, a Cesano Boscone, e quello di Giuseppe Scalari, a Trezzano sul Naviglio. E trovano nuove conferme al racconto di Morabito sull' omicidio del boss Toto' D' Agostino, ucciso a Roma nel 1976. Il nuovo pentito era stato condannato a Milano per riciclaggio. Il suo nome era collegato a quello di Jordan Fortuny, uno strano finanziere di Andorra che aveva in valigia 358 milioni in contanti. Tra quelle banconote i poliziotti ne avevano trovate 263 segnate, perche' venivano da tredici sequestri, tra cui quelli di Cesare Casella, Esteranne Ricca e Carlo Celadon.

Buccini Goffredo

Pagina 13
(12 novembre 1993) - Corriere della Sera