martedì 29 gennaio 2008

IL SERGENTE ROMANO

Pasquale Domenico Romano nacque a Gioia del Colle il 24 Agosto 1833
Nel 1851 si arruolò nell'Esercito Borbonico dove intraprese una brillante carriera assumendo ben presto il grado di "primo sergente" e dove, per le sue particolari doti militari, ebbe l'onore di diventare "Alfiere" della Prima Compagnia del 5° di Linea. Disciolto l'Esercito del Regno delle Due Sicilie non si diede per vinto diventando comandante del Comitato Clandestino Borbonico di Gioia del Colle Tuttavia, avvertendo i tempi stretti, la gravità della situazione e mai sopportando l'inoperosità degli adepti del Comitato, dopo poco tempo abbandonò i "salotti" e passò senza esitare alla lotta armata, dando il via alla sua guerra partigiana contro i piemontesi.
Le azioni di guerra fulminee ed imprevedibili, la spietatezza e nel contempo la lealtà e l'alto senso dell'onore, la ferrea disciplina militare a cui erano sottoposti i suoi uomini, le motivazioni legittimiste e religiose che lo spingevano a lottare con coraggio e determinazione, l'assoluta fedeltà al suo sovrano Francesco II ed al Papa lo fecero diventare un mito: l'eroe che difendeva gli oppressi, la giusta rivalsa sui conquistatori, il partigiano imprendibile e coraggioso, il guerriero invincibile, la volpe dei monti e dei boschi, il "brigante" degno dell'ammirazione delle popolazioni meridionali.
Il 4 Gennaio 1862 lungo la strada che porta al Santuario del Melitto, nei pressi di Cassano, tese un'imboscata alla guardia nazionale di Altamura. Nello scontro furibondo che ne scaturì i militi fatti letteralmente a pezzi dai partigiani che si abbandonarono a violenze indescrivibili dettate da un odio e da un desiderio di rivalsa profondi ed incolmabili. Sapendo di avere addosso tutte le truppe della zona il Sergente, a notte fonda si sposto nel bosco di Vallata presso Gioia del Colle nello stesso posto da dove nel 1861 erano partite le sue prime incursioni. Ma anche questo suo spostamento fu intercettato e nel giro di qualche ora il bosco fu circondato da un intero reparto di cavallegeri di Saluzzo, comandato dal capitanp Bolasco, e da un plotone di guardie nazionali accorse in forze da Gioia del Colle. Il Sergente Romano ed i suoi uomini sentendo i nemici addentrarsi nella fitta vegetazione da tutte le direzioni intuirono la grave situazione e aspettarono immobili nei loro nascondigli fino all'ultimo momento. Lo scontro a fuoco fu micidiale e, terminate le scariche di fucileria, seguìun furioso corpo a corpo all'arma bianca. Uno alla volta i Borbonici caddero sotto i colpi sferzanti della soverchiante truppa nemica. Il Romano circondato dai militi piemontesi si battè con forza sovraumana fino a quando, coperto di sangue e ferito al grido di "Evvivorre!", cadde gloriosamente. Alla sua morte gli uomini smisero di combattere e si lasciarono arrestare. Il corpo del partigiano fu miseramente spogliato della divisa borbonica e, issato come una preda ad un palo sopra un carretto, fu portato a Gioia del Colle, in via della Candelora, sotto le finestre della sua abitazione dove rimase esposto per una settimana. Nonostante ciò la popolazione non volle credere alla morte del proprio eroe e continuò a raccontare le sue gesta, ad aspettare il suo ritorno, a sperare in un futuro di giustizia. Ma il Sergente Romano era effettivamente morto e con lui era finita la resistenza armata all'invasore piemontese in terra di Puglia.

FONTE: www.brigantaggio.net

lunedì 28 gennaio 2008

IL "BRIGANTE" CHIAVONE

Luigi Alonzi, detto Chiavone, nacque a Sora nel 1825 in contrada Selva, confinante con l’ex Stato Pontificio. Era stato Guardia Nazionale nel suo paese, che abbandonò all'arrivo dei piemontesi ritirandosi a Casamari. Successivamente, tornò a Sora da trionfatore. Dopo la vittoria di Bauco (Bovelle Ernica), continuò a combattere contro i piemontesi del colonnello Quintili, e si rifugiò nello Stato Pontificio. Era un contadino, ma non aveva mai perduto la vocazione militare. Si fece fare un'uniforme da generale, con galloni d'oro, bottoni, speroni, e scudiscio. Della sua banda, alcuni indossavano uniformi francesi comprate nel ghetto di Roma, altri indossavano l'uniforme da cacciatori dell'esercito Borbonico, altri vestivano semplicemente da contadini, da ciociari. Esercitava un vero fascino. L'abbigliamento era pittoresco: cappello di feltro nero con piuma bianca, tunica nera serrata alla vita da sciarpa di seta rossa, spadone alla castigliana. Non era malvagio, annota Monnier, ma poneva a riscatto i proprietari e speculava sul re che serviva. Aveva molta simpatia per Garibaldi, specialmente quando questi si irritava con i piemontesi, e come Garibaldi, sapeva ben utilizzare il pittoresco per guadagnare popolarità.
Nel giugno del 1862 Chiavone, fu ucciso mediante fucilazione nei pressi di Trisulti, località di Collepardo (FR).

CARMINE DONATELLI CROCCO: IL FIERO GENERALE DEL BUON RE FRANCESCO

Carmine Donatelli nacque a Rionero (Potenza), fu nel 1852 soldato disertore e poi capo di una banda di briganti. Arrestato e condannato a 19 anni di ferri, evase dal carcere di Brindisi di Montagna e si unì agli insorti guidati da Pasquale Catena. Fu nuovamente arrestato e rinchiuso nel carcere di Cerignola dal quale evase aiutato da don Anselmo Fortunato. Divenne colonnello dell'esercito che sosteneva il ritorno della famiglia Borbone, gli fu affidato l'incarico di reclutare e raccogliere i soldati di Francesco II, sparsi nel sud Italia. Crocco raccoglie circa ottomila uomini e si nasconde nei boschi di Lagopesole. Di qui parte l'attacco a Ripacandida (Potenza) dove viene ucciso il capitano della Guardia Nazionale. Intanto a Melfi (Potenza) viene cacciato il vicegovernatore e innalzato il vessillo borbonico; così avvenne anche nei paesi del materano e del lagonegrese. Dopo essere stato accolto dalle popolazioni del vulture - melfese, Crocco fu tradito da quanti prima lo avevano sostenuto, fino a quando viene catturato per mano delle truppe pontificie a Veroli (Frosinone); arrestato e rinchiuso nelle carceri di Roma. L'11 Settembre 1872 fu condannato a morte a Potenza, ma riuscì a scontare il carcere a vita nel penitenziario di Portoferraio, dove divenne uomo di lettere e scrisse le sue memorie.

Abilmente preparato il moto reazionario scoppiò il 7 aprile alla Ginestra. Contadini, pastori, cittadini di ogni eta' e condizione al grido "Viva Francesco II", corsero ad armarsi di fucile, di scure, di attrezzi colonici e in massa compatta avanzammo su Ripacandida. La notizia che le guardie mobili di Avigliano e Rionero movevano unite contro di noi, portò un po' di sgomento nella mia gente; conveniva a me, all'inizio della spedizione, non espormi ad una facile sconfitta, affrontando i militi nazionali in aperta campagna. Una disfatta anche parziale avrebbe influito enormemente sullo spirito delle popolazioni, facendo svaporare quell'entusiasmo popolare, ch'io con tanto lavoro segreto, avevo grado a grado saputo destare per ogni dove. Ad una lotta aperta e cruenta preferii la guerra d'astuzia, per cui, lasciata la via, mi internai nei boschi ove sarebbe stato facile l'agguato e la vittoria. La Ginestra era il mio impero, la sede sicura, il centro della mia forza, e di la' mossi risoluto su Ripacandida. Attaccai violentemente ed in breve fui padrone della caserma dei militi e in possesso delle loro armi. La folla selvaggia ch'io comandavo non aveva freno, né a me conveniva mitigarla. Quella mia condiscendenza alla distruzione, al saccheggio, era fomite per me di maggior forza avvenire, l'esempio del fatto bottino traeva dalla mia altri proseliti anelanti di guadagnar fortuna col sangue. Lasciai quindi ognuno libero di se' ordinando solo si rispettassero le famiglie dei nostri compagni d'armi. Nel conflitto avuto coi militi paesani, il loro capo era caduto morto, il cadavere di costui trascinato per le vie venne portato innanzi all'abitazione della famiglia sua mentre la folla ne saccheggiava la casa. Durò per più ore - la baldoria ed il ladroneggio e solo verso sera pensai a riordinare quell'orda ubbriaca. Prima cura fu quella di decretare decaduta l'autorità imperante, e chiamato a consiglio i caporioni, nominai una giunta provvisoria che doveva sedere al municipio e di là emanare decreti e proclami. Volli che per le chiese venisse cantato il Tedeum in onore della vittoria e si abbattessero tutti gli stemmi del nuovo governo innalzando quelli, già abbandonati, del Borbone. Da Ripacandida a Barile breve è il cammino; numerose sollecitazioni mi chiamavano colà a liberare la plebe dalle sozzure dei ricchi prepotenti, per cui mossi tosto per quella volta, e, preso possesso del paese, ne ordinai il governo come avevo fatto per Ripacandida. Le vittorie di quei primi giorni se avevano allarmato, non a torto, i signori, avevano per altro affezionato alla mia causa migliaia di contadini, cosi che correvano à me da ogni dove a stuolo numerosi armati per mettersi ai miei ordini. Compresi come dovessi, senza perder tempo, prendere possesso di centri più importanti, per cui inviai alcuni fidi in Venosa perché mi preparassero il terreno. Ed il mattino del giorno 10 col mio piccolo esercito di predatori mossi alla conquista della vetusta Venusia. Sapevo che la città (8000 abitanti) era preparata a difesa e che in aiuto della guardia civica erano giunti i militi di Palazzo S. Gervasio, ma sapevo altresì che in paese la mia venuta era attesa da molte persone, e che queste non erano tutte del popolo, ma in buona parte signori. A mezza via fui informato che la milizia civica, allarmata dalla forza che era ai miei ordini, aveva deciso chiudere le porte, asserragliare le vie, portandosi ad occupare il castello. Giunto in vicinanza della città, ripartii la mia forza in diversi gruppi a cadauno dei quali assegnai un settore di attacco; mentre ero occupato in tale operazione, vidi sventolare dall'alto delle chiese alcune bandieruole bianche, segnale a me ben noto, per cui ordinai senz'altro l'attacco. Ma fu un attacco incruento, poiché scavalcate le mura mi vennero aperte le porte senza colpo ferire, ed io entrai coi miei occupando subito la piazza principale, di dove mossi per assalire il castello. Dalle grida di gioia e di furore dei miei, a cui faceva eco l'acclamazione popolare, la difesa comprese tosto essere vano ogni suo sforzo; pochi colpi di fucile sparati contro la mura ebbero il merito di ottenere una resa a discrezione, sotto promessa di lasciar a tutti la vita. Venosa era mia ed in men che non si dica io ricevevo le congratulazioni dei maggiorenti, mentre a migliaia affluivano a me le suppliche d'ogni genere e specie. Prima mia cura fu di spalancare le carceri, nominare un consiglio reggente e pubblicare il nome delle persone che dovevano aver rispettate la proprietà e la vita, pena la morte ai trasgressori. Dal 10 al 14 io rimasi coi miei in Venosa spogliando, depredando, imponendo taglie, distruggendo uomini e case, facendo man bassa su tutti coloro che erano nemici della reazione. Dopo Venosa era stata decisa l'occupazione di Melfi, dove i nostri amici avevano tutto preparato perché fossi accolto cogli onori dovuti al mio grado. Il 14 aprile 1861 lasciai Venosa e mi gettai su Lavello accolto da quella popolazione al grido " Viva Francesco II ". Raccolto in paese quel poco che ci fu dato trovare, stante le poche risorse sue e nominata la solita Commissione a governo del Municipio, mi affrettai avanzare su Melfi che con plebiscito popolare aveva decretato decaduto il potere regio. Fra le non poche soddisfazioni ch'io pure provai nell'avventurosa mia vita, io ricordo con viva compiacenza la maggiore, la più splendida, quella cioè che accompagnò il mio ingresso nella città di Melfi, capoluogo di circondano. A qualcuno, leggendo queste memorie, potrà apparire esagerato il mio scritto, ma giuro non sul mio onore, ma sulla sacra memoria di mia madre, che non esagero, che non mento, e d'altronde credo che parleranno di ciò i documenti ufficiali. Ai piedi della non breve salita che, staccandosi dalla rotabile, conduce alla porta principale, fui accolto, al suono delle musiche, da un comitato composto delle persone più facoltose della città, mentre suonavano a distesa le campane a festa, e dai balconi, gremiti di persone e parati con arazzi variopinti, le donne lanciavano fiori e baci. Giunto sulla piazza principale il signor... dall'alto del sontuoso suo palazzo dopo un acconcio discorso inneggiante le virtù e le glorie del governo Borbonico, invitò il popolo ad acclamare in Crocco, il fiero generale del buon Re Francesco II. Rispose a quell'invito un triplicato "Evviva a Crocco", mentre sparavano per le vie i mortaretti in segno di maggior contento. Nella chiesa, addobbata riccamente per me, era stata esposta la Madonna del Carmine, perché io rendessi omaggio devoto alla Vergine che mi aveva protetto portandomi vincitore e illeso dopo tante ed aspre lotte. Alla sera del mio ingresso per tutta la città vi furono luminarie, feste, balli e baldoria...

FONTE DA : www.brigantaggio.net Note autobiografiche di Carmine Crocco, Melfi 1903

domenica 27 gennaio 2008

Maria Sofia Wittelsbach-Borbone: I' Eroina di Gaeta

II 19 gennaio del 1925 cessava di vivere l'ultima Regina di Napoli, Maria Sofia Wittelsbach-Borbone. Di questa meravigliosa donna, detta I' Eroina di Gaeta è raro che se ne parli, mentre tutti conoscono la vita e le vicende della sorella Elisabetta, l'indimendicata Sissy, imperatrice d'Austria, moglie di Francesco Giuseppe d'Asburgo. La storia, scritta dai savoiardi e dai risorgimentalisti liberali, dopo aver calunniato Maria Sofia, attribuendole ogni sorta di nefandezze, ha coperto con un velo d'oblio la figura e le gesta dell'ultima impavida nostra Regina, che difese letteralmente a "spada tratta" dagli spalti di Gaeta i diritti della Monarchia Napoletana e di tutto il Sud, contro il sopruso e la criminale aggressione piemontese dell'Antico Regno delle Delle Due Sicilie. Maria Sofia Amalia era nata il 4 ottobre del 1841 nel Castello di Passenhofen in Baviera dai Duchi Massimiliano Wittelsbach e Ludovica, figlia del re di Baviera, Luigi I. Terza delle cinque figlie dei duchi di Baviera, Maria Sofia somigliava molto a Elisabetta. Era "alta, slanciata, dotata di bellissimi occhi di color azzurro-cupo e di una magnifica capigliatura castana; Maria Sofia aveva un portamento nobile ed insieme maniere molto graziose" (1). Elisabetta, chiamata Sissy in famiglia, era la sorella alla quale si ispirava Maria Sofia e costituiva per lei l'esempio da imitare nel modo di vestirsi, di comportarsi, in una parola, di vivere. Le due sorelle erano le più affiatate e somigliavano molto al padre, il Duca Max, come esuberanza di carattere e spirito d'avventura. Erano esperte cavallerizze, bravissime nel nuoto, nella scherma, nell'uso della carabina e amavano la vita all'aperto, a contatto della natura. Non di rado seguivano il padre nel bosco in lunghe galoppate a caccia di animali selvatici. Certo per l'epoca in cui vissero e per il ceto a cui appartenevano, i loro modi non risultavano consoni al ruolo che esse avrebbero avuto nella società di allora. La madre Ludovica prodigò ogni suo sforzo per frenare l'esuberanza delle figlie che a Possy (Passenhofen), dispiegavano il loro spirito libero. Più allegra e più portata all'azione era Maria Sofia, rispetto a Sissy, il cui animo era piuttosto incline a una velata malinconia. Non ancora diciottenne, per la duchessina Maria Sofia giunse la richiesta di matrimonio. Il "principe azzurro" tante volte sognato era l'erede al trono delle Due Sicilie Francesco di Borbone, Duca di Calabria. L'unione fra i due fu ovviamente stabilita dalle rispettive famiglie Borbone-Wittelsback. Maria Sofia conobbe lo sposo attraverso una miniatura che mostrava Francesco in divisa da Ussaro rimanendone favorevolmente sorpresa, nonostante che le voci a lei giunte sull'aspetto del futuro sposo non fossero entusiasmanti. In vero la miniatura era stata notevolmente abbellita. Secondo l'uso dei tempi il matrimonio fu celebrato per procura l'8 gennaio del 1859 a Monaco di Baviera e dopo Maria Sofia volle recarsi dalla sorella Sissy a Vienna per un breve soggiorno. Successivamente la nuova duchessa di Calabria si imbarcò a Trieste per raggiungere il suo sposo a Bari, dove giunse il 3 febbraio. Le accoglienze della popolazione furono entusiastiche, ma la malattia del Re già gettava un'ombra funesta sul lieto evento. Durante la permanenza a Bari la famiglia reale soggiornò nel palazzo dell'Intendenza, attuale sede della Prefettura. Maria Sofia, col suo fascino e la giovanile bellezza si attirò subito le simpatie di quanti la conobbero. Primo fra tutti fu il Re a rimanere favorevolmente impressionato dalla figura della nuora. Le sue giornate si dividevano fra il teatro e le escursioni nelle vicinanze di Bari, in compagnia dei giovani cognati con i quali aveva subito fraternizzato, avendo in comune con essi spirito d'avventura e atteggiamenti goliardici. L'aggravarsi della malattia del Re che lo costrinse a letto per tutta la durata del suo soggiorno a Bari, accellerò il rientro a Caserta. Il 7 marzo, il Re costretto su una lettiga, la Regina Maria Teresa, Francesco, Maria Sofia e tutto il loro seguito si imbarcarono sulla pirofregata "Fulminante" e partirono alla volta di Napoli. Finalmente per Maria Sofia, lasciato il grigiore del Palazzo intendentizio barese, si aprivano nuovi orizzonti. Il mare che ella tanto amava le dava il senso dell'avventura e del mistero; man mano che il vascello s'avanza tra le onde, la futura regina ripassa nella mente i racconti e le descrizioni della sua nuova dimora apprese dal suo sposo e dalla sua dama di compagnia, la marchesa napoletana signora Nina Rizzo. Di certo non poteva immaginare la giovanissima Duchessa quali trame stesse tessendo il destino per il suo futuro. Sopra coperta, Maria Sofia scrutava l'orizzonte e sognava: sarebbe stata la regina di uno Stato mediterraneo considerato il giardino d'Europa. Francesco, invece, non si staccava dal capezzale del Re, suo padre; in lui crescevano l'angoscia e, di pari passo, l'ansia ed i timori per le gravi responsabilità che lo attendevano. Tutto ciò può aver avuto un peso sull'atteggiamento poco ardente tenuto dal Principe nei confronti della sua giovanissima moglie. La sua profonda religiosità, un'innata timidezza non disgiunta da soggezione, frenavano Francesco che pure era rimasto affascinato e travolto dalla esuberante bellezza di Maria Sofia.

Inizi del periodo napoletano

Giunti finalmente a Napoli, Maria Sofia rimase colpita dallo splendore della capitale, ma ancor più rimarrà ammirata dalla magnificenza della Reggia di Caserta e del grande parco, esteso ben centoventi ettari. Inevitabilmente tornarono alla sua mente le giornate in allegra libertà trascorse a Passenhofen, nella sua amata terra. Ma in più a Caserta, i profumi, il calore e la luminosità meridionali le infondevano una gioiosa frenesia.
Con la nuova numerosa famiglia napoletana si trovò presto a suo agio; i giovani cognati l'accolsero con calore e simpatia. La sola Regina Maria Teresa manteneva nei suoi confronti un atteggiamento severo e diffidente, tipicodel suo carattere, mentre con suo suocero, Re Ferdinando, si era stabilita una subitanea intesa. Durante l'ultimo breve periodo della sua vita, Ferdinando riceveva quasi tutti i giorni nella sua camera i Principi ereditari per istruirli sulle cose del Regno, e a Maria Sofia, in particolare, raccomandava di non fidarsi mai dei "parenti di Torino", definiti : "piemontesi falsi e cortesi". Dopo la morte di Ferdinando II, passato il periodo del lutto, la giovane sovrana può finalmente liberarsi della soggezione della Regina-madre e riprendere liberamente le sue abitudini sportive come le lunghe cavalcate, la scherma, il nuoto. Ripresero le feste a corte in sintonia con la gioiosità napoletana così gradita alla nuova Regina che già riscuoteva le simpatie del popolo. Maria Sofia non perse tempo ed impose con fermezza il suo ruolo, neutralizzando la residua autorità di sua suocera Maria Teresa e l'influenza dei suoi amici, da lei definiti ironicamente "potenza delle tenebre" (2). Questo tempo di relativa tranquillità già volgeva alla fine. Le prime avvisaglie della bufera in arrivo si ebbero con la sanguinosa rivolta degli Svizzeri, anch'essa provocata ad arte da agenti piemontesi (con la propaganda e la corruzione) allo scopo di privare l'esercito borbonico di reggimenti che erano sempre stati esempio di disciplina e fedeltà alla Corona. In questa occasione Maria Sofia fu l'unica a tenere un comportamento coraggioso; non ebbe paura di salire sul terrazzo della reggia per assistere a cosa stesse accadendo. Dopo questi gravi eventi, conclusisi con l'allontanamento degli Svizzeri, i liberali e gli altri nemici occulti della Corona gioirono ritenendo un loro successo lo scioglimento dei reggimenti. I fedeli della Monarchia, invece, videro in esso una grave iattura. A colmare la grave carenza militare determinatasi, per iniziativa di Maria Sofia, furono costituiti tre battaglioni con soldati bavaresi prontamente inviati nel reame da suo zio, Re Massimiliano di Baviera. Intanto capo del governo veniva nominato il vecchio Carlo Filangieri, "l'uomo dei momenti perduti", come lo aveva definito Ferdinando. Maria Sofia presto si rese conto di quale coacervo di interessi multiformi e contrastanti era composto l'ambiente di Corte. Un fatto appariva chiaro: la morte di Ferdinando II sembrava avesse sciolto tutti dal vincolo di fedeltà alla Corona e, anziché stringersi intorno al Trono e sostenere il giovane sovrano, tutti si sentivano liberi di fare e disfare, non nutrendo nessuna fiducia nel nuovo Re e non avendo di lui alcun timore.

Governo Filangieri e riforme

Il nuovo governo guidato da Filangieri emanò un condono per i condannati per reati politici ed abolì le "liste degli attendibili". Inoltre, non solo consentì il rientro nel Regno di liberali e fuorusciti, bensì diede loro posti importanti nella Pubblica Amministrazione togliendoli a funzionari di provata fedeltà per dare un messaggio di "pacificazione". Ma gli irriducibili nemici della Monarchia napoletana che agivano all'interno del paese erano fermamente decisi a "non lasciare al nuovo Re, di cui era nota la correttezza morale, il tempo si assestarsi sul trono e di coagulare intorno alla monarchia, grazie anche alla simpatia che riscuoteva la giovane Regina, nuove adesioni e consensi con un pericoloso (per loro) recupero di legittimazione " (3) Nei pochi mesi del soggiorno napoletano, Maria Sofia seppe imporre la sua personalità e dimostrare il suo già forte legame con la nazione. La sua risolutezza e determinazione sembravano compensare la debolezza e le incertezze del Re. Per quanto riguarda la pretesa adesione di Maria Sofia ai principi costituzionali, data per certa da quasi tutti i suoi biografi, solo perché nella sua patria d'origine tali principi erano già in atto, non v'è una documentazione sufficiente per dimostrarla. Ammesso, comunque, che tale fosse il suo pensiero, non poteva sfuggire alla Regina, donna di acuta intelligenza, che le contingenze del Regno non erano tali da consentire una riforma in senso costituzionale da molti ritenuta rovinosa per il paese, né poteva aver dimenticato gli ammaestramenti dati in punto di morte da Re Ferdinando, per il quale Costituzione significava rivoluzione. Era tempo, invece, di "serrare i ranghi", chiamando i fedelissimi a raccolta e dare precisi segnali di energia e risolutezza. Così non fu. E i nemici interni ed esterni intensificarono ogni azione per condurre il Regno alla rovina. "Lentamente cresceva nel Regno la tensione politica che né i numerosi decreti di clemenza, né la buona volontà dimostrata dal giovane Re potevano esorcizzare. Anzi, sembrava che ad ogni provvedimento positivo gli eventi accelerassero il loro corso" (4). Maria Sofia, assisa su uno dei più bei troni d'Europa, già ne avvertiva lo scricchiolio. Il Re era praticamente prigioniero della larga cerchia di collaboratori e consiglieri che lo avevano indotto, col nemico già alle porte, a prendere quei provvedimenti libertari che risulteranno esiziali per il Regno: già allignava negli ambienti governativi e nelle alte sfere militari l'ombra del tradimento. Sfuggiva agli onesti ed ai fedeli alla Monarchia che ai liberali ed ai fuorusciti napoletani non interessava affatto una trasformazione dello Stato borbonico in senso liberale, volevano semplicemente e solamente la fine del Regno napoletano e l'annessione al Piemonte. Dice lo storico Ruggero Moscati che per i liberali ed i massoni il "porro unum" era la "cacciata" dei Borbone, per il resto, poi si sarebbe visto. (5)

Dissoluzione dell'esercito e abbando-no della Capitale

Nel clima di generale disorientamento che dominava a Corte, solo Maria Sofia era determinata a seguire qualunque strategia che fosse d'attacco e di efficace contrasto ai nemici invasori.
Ella non si stancava di incitare il Re a mettersi a capo dell'esercito e passare all'azione, sicura che tutto il popolo l'avrebbe sostenuto e seguito. Ma Francesco II, a parte la sua naturale indolenza, irretito e condizionato com'era, da una selva di ministri e collaboratori di dubbia fede non riusciva a prendere quelle decisioni che la situazione richiedeva. Dopo la perdita della Sicilia e la dissoluzione dell'esercito in Calabria, tutti a Napoli furono presi dallo scoramento. La tragedia era ormai incombente e il Re non sapeva a chi votarsi. Chiedeva consiglio ai maggiorenti del Regno, ma riceveva suggerimenti contrastanti. Il vecchio generale Carrascosa, interpellato rispose : "Vostra Maestà monti a cavallo, e noi saremo tutti con Vostra Maestà; o cadremo da valorosi, o butteremo Garibaldi in mare" (6). Ovviamente questo tipo di consigli trovavano la Regina consenziente ed entusiasta. Altri, invece, sostenevano che se il Re si fosse allontanato da Napoli ci sarebbe stata la rivolta. Intanto era già iniziata la lunga serie di dimissioni di ministri e generali. Dopo le dimissioni di Pianell il Re offrì l'incarico di capo del governo al generale Ischitella, ma questi dopo vari tentativi, rimise l'incarico sostenendo che "ognuno si rifiutava di essere ministro in quel momento, in cui si vedeva la dissoluzione del Regno, e nessuno voleva compromettersi." (7) Appariva, invece, determinato e risoluto il ministro Liborio Romano (che meriterà poi l'aureola di primo grande traditore). Costui consigliò il Re di affidare la Reggenza temporanea ad un "ministro forte e fidato" (cioè lui) e lasciare Napoli, reputando ormai impossibile fermare Garibaldi. Consiglio che poi, funestamente, il Re seguirà, essendo venuto nella determinazione di rifugiarsi a Gaeta e apprestare poi una difesa fra il Volturno e il Garigliano. Il pomeriggio del 5 settembre i Sovrani uscirono dalla reggia per mostrarsi al popolo napoletano e ai soldati per risollevarne gli animi; anche in questa occasione il piglio battagliero di Maria Sofia si manifestò con l'intenzione di mostrarsi a cavallo insieme al Re, ma prevalse il consiglio di uscire in una carrozza scoperta. Il giorno dopo, nel pomeriggio, i Sovrani lasciarono la reggia e si imbarcarono per Gaeta, dove erano già stati preceduti dalla Regina madre con i figli minori. Dopo la decisiva e sfortunata battaglia del Volturno, il Re, insieme ai principi reali, avvilito, ritornò a Capua e fu convinto dal Maresciallo Ritucci dell'impossibilità di riprendere la battaglia, ma al suo ritorno a Gaeta, la stessa notte, ancora una volta, incitato dalla moglie e da altri, mutò parere e comunicò telegraficamente al Ritucci la sua decisione di riprendere la battaglia, ma costui tergiversava, non avendo ormai nessuna intenzione di combattere. Né si decise a riprendere l'offensiva quando il Re, appreso che Vittorio Emanuele aveva varcato il confine del Regno, gli intimò di marciare verso Napoli. Inevitabile fu allora la sua sostituzione col generale Salzano, il quale già nel consiglio di guerra del 31 ottobre, appoggiato da Ulloa, invitava Francesco II a intraprendere una guerra partigiana conducendo l'esercito sulle montagne. Molto esplicito a questo proposito fu il generale Salzano: "Si facciano rivivere i Fra Diavolo, i Pronio, i Mammone ed i tanti altri condottieri di masse del 1799 ; in una parola il Reame intero deve essere chiamato alle armi. Imitiamo il popolo spagnolo che seppe umiliare la potenza di Napoleone I" (8). Ma il Re preferiva ripiegare su una lunga resistenza a Gaeta nella convinzione che le potenze europee non avrebbero tollerato oltre i soprusi del Piemonte e sarebbero intervenute. Dopo gli scontri sul Garigliano inevitabile fu il ripiegamento in Gaeta.

Il tempo di Gaeta

E' il tempo di Gaeta quello in cui Maria Sofia si guadagna l'aureola di "eroina". E proprio a Gaeta, durante quel memorabile assedio, fra inenarrabili patimenti e angustie, troverà il suo humus e dispiegherà tutte le sue energie. Dice di lei Amedeo Tosti, uno dei suoi biografi: "Fin dal giorno del suo arrivo a Gaeta, la Regina Maria Sofia aveva preso ad esplicare una grande, inconsueta attività: visita ai reparti delle caserme, sopraluoghi sui lavori di afforzamento, predisposizioni per le cure ai feriti ed agli ammalati, contatti con la popolazione, tra la quale la giovane Sovrana non tardò a diventare popolarissima" (9). I soldati la chiamavano:"Bella Guagliona nuosta". Nei momenti più gravi Maria Sofia non si perdeva d'animo, lo sprezzo del pericolo era una costante del suo comportamento; sapeva affrontare ogni rischio col sorriso sulle labbra, quasi a sfidare il destino. Per questo i soldati l'adoravano ed anche in punto di morte invocavano il suo nome. Quando a Gaeta la situazione diventerà sempre più tragica a causa dell'epidemia del tifo, del terribile freddo di quell'anno, della scarsità di cibo, la Regina risponderà sempre no all'invito del marito di lasciare la roccaforte. In una lettera a Napoleone, Francesco II a questo proposito, non senza compiacimento, dirà della moglie : "Ho fatto ogni sforzo per persuadere S.M. la Regina a separarsi da me, ma sono stato vinto dalle tenere sue preghiere, dalle generose sue risoluzioni. Ella vuol dividere meco, sin alla fine, la mia fortuna, consacrandosi a dirigere negli ospedali la cura dei feriti e degli ammalati; da questa sera Gaeta conta una suora di carità in più" (10). Ciò che destava ammirazione, soprattutto fra i combattenti, era la continua sfida del rischio da parte di Maria Sofia sempre presente dove più infuriava al battaglia. Non da meno si dimostrò il Re che ogni disagio e privazione volle dividere con i suoi soldati e la popolazione. In non poche occasioni sembrò che Egli cercasse la morte fra i suoi soldati, ma evidentemente il destino gli riservava altre angosce. Man mano che il tempo passava, andavano scemando le speranze del Re in un intervento militare da parte di qualche potenza europea (Austria, Spagna, Russia) per ristabilire il diritto. Tali possibili interventi, viceversa, erano temuti dagli assedianti piemontesi, che perciò erano determinati ad intensificare il fuoco e le operazioni di assedio per espugnare quanto prima la cittadella. Per la festa dell'Immacolata dell'otto dicembre, il Re fece sospendere le ostilità per le celebrazioni religiose. In questa occasione anche gli assedianti sospesero il fuoco, non per motivi religiosi, ma per consentire al vice ammiraglio francese de Tinan di consegnare al Re una lettera di Napoleone con cui si annunziava l'imminente ritiro della squadra navale francese da Gaeta, e si consigliava Francesco II di desistere dalla ormai inutile resistenza. Tale avviso fu per i reali napoletani un colpo ferale e se ne dolsero con i sovrani di Francia. Ciononostante erano determinati a combattere fino alla fine. La Regina continuò con maggior sprezzo del pericolo ad aggirarsi fra le batterie rincuorando gli impavidi soldati. Il 19 gennaio, con l'allontanamento della squadra navale francese, tutto il fronte di mare rimarrà scoperto ed in balia della flotta piemontese. Cesserà da questo momento la possibilità di rifornimento della Piazza, ormai condannata ad una rapida agonia. Isolamento della Piazza e fine delle ostilità Non si erano del tutto allontanate le navi francesi, che già comparvero come funesti avvoltoi, le prime tre navi piemontesi dell'ammiraglio Persano. L'isolamento della Piazza era ormai completo. Dappertutto in Gaeta ben visibili apparivano segni di distruzione e di morte: macerie e cadaveri disseminati, animali morti di stenti, feriti e moribondi. Ritenendo ormai imminente la resa, Napoleone, il 27 gennaio fece informare Francesco II che all'occorrenza era già pronta nel golfo di Napoli la nave a vapore "Mouette" a disposizione dei reali napoletani , quando avessero deciso di abbandonare Gaeta. Ma il Re, dopo aver ringraziato l'Imperatore, fece sapere ancora una volta, che era "deciso a difendere fino agli ultimi estremi questa piazza, isolata dal resto del mondo". Completamente ignorata fu, invece, l'oltraggiosa offerta fatta da Vittorio Emanuele, l'invasore, tramite Cavour, che informava di aver messo a disposizione di Re Francesco la nave da guerra "Vittorio Emanuele" per lasciare Gaeta. Ancora la sera dell'otto febbraio dal consiglio di guerra convocato dal Re venne fuori la decisione di resistere ad oltranza, ma ormai tutto rovinava, anche le ultime muraglie. Ogni residua speranza ed illusione cessava la sera del 10, quando una lettera autografa dell'Imperatrice Eugenia, inviata a Maria Sofia, riferiva dell'impossibilità di un ulteriore intervento francese ed invitava a cedere al destino. Sotto l'incalzare degli avvenimenti, soltanto il giorno 11 il Consiglio Supremo dello Stato, convocato da Re Francesco, riconobbe la necessità di una pronta ed onorevole capitolazione. Ormai rassegnati a quella sorte iniqua, ma non domi, i reali napoletani si aggiravano come fantasmi fra le macerie fumanti di Gaeta. La mattina del 14 febbraio Francesco II e Maria Sofia, lasciata la loro residenza, si avviavano verso il molo per imbarcarsi sulla motonave "Mouette" che li avrebbe condotti nello Stato Pontificio. Particolarmente toccante è la descrizione della scena di partenza fatta dal generale Pietro Ulloa : "I soldati laceri e defaticati, con gli occhi abbattuti, presentavano le armi, e le musiche dei reggimenti suonavano la marcia reale. Quest'inno, opera del Paisiello, durante i bombardamenti si suonò continuamente; ed allora questo pezzo d'armonia faceva un contrasto doloroso col rumore spaventevole delle artiglierie, ma in questo momento solenne queste note, così armoniose e tenere, fecero alta impressione, poiché ricordavano ben altri tempi; talché l'emozione divenne generale e le lagrime sgorgarono dagli occhi di tutti. I soldati, gridando: "Viva il Re", non facevano sentire che suoni rauchi, misti a singulti, e la popolazione, esposta a dure prove durante l'assedio, si precipitò allora sui passi del Re per baciargli chi le mani e chi gli abiti, e parte di essa dall'alto dei balconi, convulsa, agitava i bianchi fazzoletti come affettuoso segnale dell'estremo addio. I soldati si prostravano, singhiozzando, dinanzi al Re, e gli uffiziali, oppressi dallo stesso dolore, si gettavano nelle braccia dei loro soldati, scambievolmente abbracciandosi; e di questi ultimi vi furono molti che, strappandosi le spalline, ruppero le spade e le gittarono al suolo. La commozione era intensa: il Re a stento si potè aprire il varco fra i suoi soldati, fra la popolazione che lo serrava come in un abbraccio: per la prima volta si videro spuntare dagli occhi della Regina le lagrime. Finalmente il Re potè raggiungere la porta di mare e il porto, dove s'imbarcò sulla "Mouette"; quando lasciò il porto, una batteria rese gli ultimi onori al Re. Il rumore del cannone s'innalzò per l'aere come il singhiozzo del moribondo... Le grida di "Viva il Re", innalzate dai connonieri sul momento in che abbassavasi la bandiera napolitana, ci stringevano il cuore; poiché sembravaci quella bandiera un funereo lenzuolo, che si gittava sulla Monarchia di Carlo III, e gli stessi francesi della "Mouette erano commossi come i napolitani" (11). Al passaggio della nave reale davanti alla batteria borbonica Santa Maria " fu eseguita la salva reale di ventun colpi di cannone ed, in segno di saluto, per tre volte fu ammainata la bandiera gigliata sulla Torre d'Orlando. Per sempre".

Periodo romano e organizzazione della guerriglia

Al suo arrivo a Roma, Maria Sofia, pur con l'angoscia nel cuore, non era per nulla rassegnata alla sorte; il legittimo risentimento e l'
inimicizia contro i Savoia la rendevano ancora più determinata a continuare la lotta con tutti i mezzi. La sua fama per le gesta di Gaeta l'aveva preceduta, ed i romani furono presto conquistati dalla sua leggiadra figura. Dopo le festose accoglienze, il Papa aveva messo a disposizione dei reali napoletani il Palazzo del Quirinale. Il Re allora, volle dare subito un segnale di continuità ricostituendo in esilio il governo borbonico sotto la presidenza di Pietro Calà Ulloa. Compito primario di questo governo era innanzi tutto quello di organizzare la resistenza contro i piemontesi nel Regno e dispiegare un'attività diplomatica di coinvolgimento delle nazioni europee. Della parte organizzativa militare, con beneplacito del Re, se ne volle occupare Maria Sofia. Volontari da tutta Europa giungevano a Roma per prendere parte alla resistenza contro gli invasori piemontesi, in una vera e propria crociata per la liberazione del Sud. Focolai di rivolta si diffusero in tutto l'ex Regno, organizzati e diretti da "comitati" borbonici in ogni provincia. "La stampa internazionale dedicava ampio spazio alla guerriglia che si combatteva nel Mezzogiorno d'Italia, prendendo spesso le difese delle popolazioni locali" (12). Maria Sofia era la " vera ispiratrice della resistenza". L'atmosfera romantica di quel tempo ben si accordava con gli ideali dei legittimisti, che pur sapendo di rischiare la vita, con entusiasmo si davano alla macchia con l'intimo convincimento di operare per una giusta causa: la riconquista del Regno. Ai facili entusiasmi si alternavano periodi di scoramento, ma la giovane Regina non si sarebbe mai sognata di abbandonare la lotta, anzi ne aveva fatto lo scopo principale della sua vita. Ricordava ed idealizzava sempre di più l'epico periodo di Gaeta e lo considerava il più bello trascorso fino allora. Il suo intenso attivismo attirò l'odio dei circoli liberali romani che cominciarono ad osteggiarla in tutti i modi. Da loro partì la vergognosa e infame operazione dei fotomontaggi in cui appariva la testa di Maria Sofia montata sul corpo nudo di una prostituta in pose lascive. Tali foto furono inviate a tutti i reali d'Europa, compreso il Papa. La polizia pontificia scoprì ed arrestò gli autori di tali vergogne: i coniugi Antonio e Costanza Diotallevi (13). I mandanti erano i membri del Comitato nazionale o "partito piemontese" e il "Comitato d'Azione" (liberali), i quali avevano anche organizzato un'aggressione mortale a Maria Sofia, fortunatamente fallita per caso. Senza nessuno scrupolo e con ogni più turpe mezzo i liberali continuavano a calunniare ed osteggiare l'amata Regina, che decise di allontanarsi per qualche tempo da Roma per recarsi a Monaco. Di ritorno, dopo le preghiere del Re, nella primavera del 1863, Maria Sofia e Francesco si trasferirono a Palazzo Farnese, antica proprietà dei Borbone. La grigia realtà dell'esilio romano cominciava a incidere negativamente sull'umore della giovane Regina, anche a causa degli intrighi e dei contrasti che si sviluppavano fra le diverse fazioni dei legittimisti esuli a Roma, i quali si perdevano in vane discussioni senza produrre concrete azioni di guerriglia nei territori dell'ex Regno. Non paghi erano i detrattori di Maria Sofia, che continuavano a tessere trame calunniose nei suoi confronti allo scopo di distruggere il simbolo stesso della resistenza da lei rappresentato. Ma nonostante tutto, Maria Sofia era ancora e fermamente convinta di poter, un giorno, riconquistare il trono alla guida dei suoi fedeli soldati e rientrare a Napoli. Fra speranze e delusioni, fino al 1866, la vita dei sovrani napoletani era trascorsa più o meno tranquilla fra Roma e la Baviera. Ma i venti di guerra che già soffiavano in Europa mettevano in apprensione gli esuli borbonici che temevano l'occupazione di Roma da parte dei piemontesi. Viceversa, i governanti italiani non nascondevano il timore per eventuali sollevazioni popolari nell'ex Regno.

Guerra del 1866 e speranze borbo-niche

Scoppiata la guerra, i borbonici speravano in una sconfitta italiana che avrebbe rimesso tutto in discussione. E la notizia della disfatta di Custoza riaccese le speranze degli esuli napoletani a Roma e fece pensare a un non lontano rientro in patria.
Invece, ancora una volta le loro speranze andarono deluse. Infatti la sconfitta degli austriaci a Sadowa ed il successivo trattato di pace che non teneva conto delle aspettative dei Borbone relative alla restituzione dei loro beni privati, raggelò l'ambiente legittimista romano, ma la rivolta siciliana del settembre 1866 repressa nel sangue dimostrò ancora una volta come fosse ancora viva l'avversione delle popolazioni dell'ex Regno contro lo Stato unitario che produceva solo miseria e morte. Dopo tali episodi, man mano che il tempo passava aumentava l'indifferenza dell'opinione pubblica internazionale verso la causa della restaurazione dei Borbone. Maria Sofia, stanca e sfiduciata ritornò nella sua nativa Baviera, ma non vi soggiornò per molto; infatti la sorella prediletta, Elisabetta d'Austria la convinse a ritornare a Roma dove, ansioso, l'attendeva suo marito e la Corte, che temeva l'abbandono degli ex sovrani. Nella primavera del 1869, finalmente un lieto evento veniva annunziato: la Regina era in stato interessante e nella notte di Natale dello stesso anno diede alla luce una bambina alla quale furono imposti i nomi di Maria Cristina Pia. Grande fu la gioia del Re e di Maria Sofia, anche se tutti aspettavano l'erede al trono. Ma per gli ex sovrani di Napoli non v'erano gioie durature: dopo appena tre mesi , la sera del 28 marzo, la piccola principessa, già di gracile costituzione, morì per improvviso malore, tra lo strazio dei genitori. Così descrive il Tosti la scena dell'addio: " quando la Regina dovette distaccarsi per sempre dalla sua creatura, resa quasi folle dal dolore, si prese la piccola cassa tra le braccia e la portò al Re, perché desse alla figlia l'ultimo bacio; poi, cadde priva di sensi" (14). Dopo questa tragedia Maria Sofia non fu più la stessa, e questo fu solo il primo di una serie di lutti che colpirà la sfortunata "Spatz" (Passero), così veniva anche chiamata la Regina del Sud. Le vicende politiche-militari ormai incalzavano, facendo temere prossima anche l'invasione di Roma da parte delle truppe italiane. Quanto ad una possibile restaurazione nel Sud, cadevano le ultime illusioni. Erano trascorsi poco meno di dieci anni nell'esilio romano e gli ex Sovrani di Napoli nulla avevano trascurato per organizzare e promuovere la resistenza e la ribellione, definite "brigantaggio" dagli invasori. Ora bisognava lasciare Roma. E ad aprile del 1870 Maria Sofia parte per Vienna, seguita poco dopo da Francesco.

L'esilio fuori d'Italia

Inizia allora per i sovrani napoletani, un triste pellegrinaggio in varie parti d'Europa, ma la loro residenza per la maggior parte dell'anno è a Parigi, in una villetta acquistata da Francesco nel sobborgo di Saint Mandé. La loro fama, e specialmente quella di Maria Sofia,
"l'Eroina di Gaeta", era così grande che, ancora da poco tempo a Parigi, già veniva pubblicato da Alfonso Daudet il suo romanzo "Les rois en exil", divenuto presto notissimo, dove è adombrata la vicenda degli ex re in esilio. Nel lungo periodo parigino la Regina di Napoli coltivò soprattutto la sua grande passione per i cavalli, e per seguirne le gare si recava spesso in varie città d'Europa e a Londra, dove si appassionò alla caccia alla volpe. Non si pensi per questo che Maria Sofia si sia rassegnata ed abbia abbandonata la lotta contro gli usurpatori Savoia; per tutta la vita continuerà a combattere e non perderà occasione per ribadire i diritti della monarchia napoletana e osteggiare in ogni modo il governo italiano. L'inimicizia per coloro che avevano distrutto la sua "favola" fu come una fiaccola che, continuamente alimentata, si spegnerà solo con la sua morte. "Impavidum ferient ruinae", dice Orazio nelle sue "Odi”, e nessun motto più di questo si attaglia perfettamente alla personalità di Maria Sofia: Ella resisterà impavida a tutti i colpi del destino. Nessuna sciagura riuscirà mai a piegarla. E di sciagure familiari ne ebbe tante, a cominciare dalla perdita della figlioletta di cui abbiamo parlato. Il 14 novembre 1888 le morì il padre, l'amato Duca Max, a poco più di un anno di distanza, il 26 gennaio del 1889, morì anche la madre Ludovica. Il 13 giugno 1886, nel lago di Starnberg trova la morte lo zio, il Re di Baviera Luigi II, forse suicida; il 30 gennaio 1889 segue la tragedia di Mayerling con la morte dell'Arciduca ereditario d'Austria, Rodolfo, suo nipote, figlio di Sissy, insieme alla sua giovane amante Maria Vetsera, anch'essi suicidi. Nell'autunno del 1894, mentre Maria Sofia era a Parigi, Francesco che soggiornava ad Arco, località termale del Trentino, vide improvvisamente aggravarsi le sue condizioni di salute, tanto che, nonostante le premurose cure, il 31 dicembre del 1894 cessava di vivere. Appena in tempo Maria Sofia riuscì a raggiungere Arco per i funerali che si svolsero con tutti gli onori dovuti all'ex Sovrano delle Due Sicilie. Le salve di cannone all'occorrenza esplose, riportarono Maria Sofia ai giorni di Gaeta, da lei considerati, nonostante tutto, i più belli della sua vita. Anche la sorella più piccola, Sofia Carlotta periva tragicamente a Parigi nell'incendio del Bazar de la Charité il 4 maggio 1897; l'anno dopo, l'opera nefasta del destino, sembra concludersi con l'assassinio dell'Imperatrice Elisabetta (Sissy), pugnalata a morte lungo la riva del lago di Ginevra da un "macabro idiota ", purtroppo italiano". (15) .. [Photo] I disordini sociali e l'attentato a Um-berto I Maria Sofia, pur oppressa dal dolore, prestava sempre viva attenzione alle vicende italiane. Ormai conclusa l'epica stagione del "brigantaggio", si andava accentuando nel nuovo Stato un malessere generale che, a causa della miseria diffusa e del governo oppressore, sfociava in frequenti disordini sociali, domati nel sangue, come nel caso di Milano, dove il gen. Bava Beccarsi fece sparare sulla folla inerme. Naturale fu l'intesa fra anarchici, rivoluzionari e legittimisti borbonici, in quanto tutti speravano che un crollo del novello Stato unitario avrebbe determinato, insieme alla cacciata dei Savoia, un nuovo assetto politico in Italia e la possibilità per i borbonici di ricostituire l'antico Stato. E' facilmente intuibile come questo vento rivoluzionario rinfocolasse le speranze e rinnovasse gli ardori di Maria Sofia e della sua corte di Neuilly a Parigi. Fra i fedelissimi dell'ex Regina, c'è Angelo Insogna, napoletano, ex direttore di giornali legittimisti, autore di una biografia di Francesco II, vero uomo di punta del legittimismo borbonico. Egli coordina le azioni di anarchici e di quanti avversano la monarchia sabauda. Nella primavera del 1898 promuove da Parigi una campagna di stampa contro lo Stato italiano con cui viene denunziata una situazione veramente allarmante: al malessere sociale diffuso dappertutto si risponde con gli stati d'assedio e la repressione più violenta. Così scriveva il giornale parigino "Petit Parisien": "Ci si domanda perché manovali, operai italiani dovrebbero essere partigiani di una Unità che non seppe affatto migliorare la loro sorte" (16). In questo clima esacerbato maturò il progetto dell'attentato al Re Umberto I. L'esecutore, già schedato dalla polizia italiana come "anarchico pericoloso" era Gaetano Bresci, già emigrato in America a Paterson, dove fu ingaggiato e fatto tornare in Europa. Sbarcò in Francia, a Le Havre e di lì raggiunse l'Italia, dove a Monza, il 29 luglio del 1900 compì il regicidio. Anche se non v'è certezza, non sono pochi gli indizi che conducono a Maria Sofia quale ispiratrice dell'attentato. Dopo questo grave fatto il governo italiano cominciò a temere ancora di più le trame anarchico-legittimiste ed i convegni segreti che periodicamente si svolgevano presso la dimora parigina di Maria Sofia. Pare che, secondo le informazioni in possesso del primo ministro Giolitti, si stesse preparando la liberazione di Bresci e la contemporanea sollevazione popolare in molti centri dell'ex Reame di Napoli. E' per questo che Maria Sofia era continuamente sorvegliata da agenti dei servizi segreti italiani. La risposta del governo italiano a tali progetti non si fece attendere: Gaetano Bresci fu trovato "suicidato" nella sua cella del penitenziario dell'isola di Santo Stefano il 22 maggio del 1901. Pochi giorni prima, in missione segreta nel penitenziario era stato inviato dal Primo Ministro Giolitti tale Alessandro Doria, un losco figuro, funzionario del Ministero dell'Interno, non nuovo a "soluzioni" di tal genere. La morte di Gaetano Bresci, comunque, pare tornasse utile a molti e non dispiacesse agli ambienti anarchici che oppressi dalla pressione poliziesca, si andavano orientando verso forme diverse di lotta politica. D'altronde, dopo il regicidio non c'erano state le auspicate rivolte popolari e l'anarchismo rivoluzionario cominciò a perdere terreno, anche perché la politica giolittiana apriva nuovi orizzonti con l'istituzione del suffragio universale, e quindi, la temuta e per altri versi auspicata involuzione reazionaria del governo (che avrebbe potuto scatenare la reazione popolare) non ci fu. Col trascorrere degli anni i governanti italiani sempre più si andavano convincendo della diminuita pericolosità dell' "Aquiletta bavara" (17), anche a ragione delle ormai cessate sue frequentazioni di personaggi dell'anarchia. Si sbagliavano. Sebbene fossero trascorsi circa cinquant'anni dalla fine del regno meridionale e Maria Sofia avesse ormai settant'anni, con alle spalle una lunghissima serie di delusioni e angosce, non rinunciava affatto a tessere le sue trame contro i Savoia e a sperare nei mutamenti della politica europea. Alla corte di Vienna l'Arciduca Francesco Ferdinando, nipote di Francesco Giuseppe (18) e suo erede, nell'ottica di una politica anti-italiana, apertamente auspicava il ricongiungimento del Lombardo-Veneto all'Austria e, in un futuro riassetto della penisola, il ripristino del Regno delle due Sicilie. Come si vede, le speranze di Maria Sofia non erano del tutto illusorie e traevano alimento da precisi fatti politici. Fosche nubi si addensavano sui cieli d'Europa che preludevano alla prima guerra mondiale. L'Italia, che aveva aderito alla Triplice Alleanza già mostrava segni di "cedimento". E non è un mistero che buona parte del paese era avversa a quell'alleanza ritenuta "innaturale" dai nazionalisti. Dopo l'attentato di Sarajevo contro l'Arciduca Francesco Ferdinando e il successivo scoppio della guerra, l'Italia dei Savoia si dichiarerà "neutrale" non rispettando i patti sottoscritti con gli alleati della Triplice. Per questa ragione a Vienna gli Stati Maggiori dell'esercito già pensavano ad una "spedizione punitiva" contro i "traditori" italiani. Maria Sofia, il cui interesse coincideva con i neutralisti, quando il "voltafaccia" italiano si manifestò chiaramente con l'intervento in guerra a fianco di Francia e Inghilterra, non potè che gioire, ritenendo che finalmente i Savoia avrebbero avuta la "lezione" che meritavano, e la loro sconfitta avrebbe determinato gli auspicati rivolgimenti nella penisola. Nel frattempo, a causa della sua attività in favore degli Imperi Centrali, l'ex Regina di Napoli era stata costretta a lasciare la Francia e si era rifugiata a Monaco, dove continuò, intensa, la sua battaglia.

Periodo di Monaco ed epilogo

La disfatta italiana di Caporetto dell'autunno del 1917 sembrò l'inizio della catastrofe che poteva culminare nella fine della monarchia degli esecrandi Savoia, tanto agognata da Maria Sofia. Il suo sogno sembra concretizzarsi, ma la gioia e il gusto inebriante della vendetta, a lungo desiderata, per poco tempo acquietarono il suo spirito. Infatti i ragazzi-fanti, per buona parte meridionali, con l'eroica resistenza sulla linea del Piave fermarono gli Austriaci. E, ironia della sorte, l'artefice della vittoria italiana fu un generale napoletano: Armando Diaz. Gli ultimi mesi di guerra videro l'ex Regina di Napoli nei campi dei prigionieri italiani prodigarsi nell'assistenza. "Fra quei soldati laceri ed affamati, lei cerca i suoi napoletani. Distribuisce, come a Gaeta, bombon e sigari". (19) Inevitabile per Maria Sofia il pensiero a Gaeta , il cui ricordo le struggeva il cuore. Erano trascorsi ben 56 anni e il suo ardente amore per la terra napoletana non si spegneva. Negli anni che seguirono Maria Sofia fu spettatrice di avvenimenti che cambieranno il corso della storia, come la fine del glorioso Impero austro-ungarico, il sorgere in Italia del Fascismo che molto la incuriosiva, i primi movimenti che in Germania porteranno Hitler al potere. Si trattava del crollo del suo mondo e lei ne era consapevole. Aveva ottant'anni l'ex Regina di Napoli , e tutte le mattine faceva ancora la sua consueta passeggiata a cavallo. Il destino volle che un'altra principessa nelle cui vene scorreva il sangue dei Wittelsbach sarà per brevissimo tempo Regina d'Italia, l'ultima: Maria Josè, pronipote di Maria Sofia, figlia di Elisabetta, Regina del Belgio. Non avrebbe mai immaginato Maria Sofia che una sua consanguinea avrebbe sposato un discendente dell'esecrando "usurpatore" (Vittorio Emanuele II). La morte la colse in tempo [19 Gennaio 1925] per risparmiarle quell'ennesimo dolore.


NOTE

1 Tosti A., Maria Sofia, ultima regina di
Napoli,
Milano 1947, p. 10. 2 Castiglione F.P., Una Regina contro il Risorgimento, Maria Sofia delle Due Sicilie, Manduria (Le) 1996, p. 55. 3 Op. cit., p. 52. 4 Op. cit., p. 61. 5 Moscati R., La fine del Regno di Napoli Firenze 1960. 6 Tosti A., op. cit., p.162. 7 Op. cit., p.165. 8 Citato in Jaeger P. G., "Francesco II di Borbone, l'ultimo Re di Napoli", Milano 1982, p. 166. 9 Op. cit., p. 194. 10 Op. cit., p. 204. 11 Ulloa Pietro G., Lettere Napolitane, Roma 1864. 12 In Castiglione F.P., op. cit., p.165. 13 Diotallevi è un cognome tipico, inventato, che si attribuiva ai figli di nessuno, già menzionati come"Esposti" o "Bastardi".
14
In Tosti A., op. cit., p. 322. 15 Così lo definisce il Tosti nella sua opera (p. 332). 16 Citato in Petacco A., La Regina del Sud..., Milano 1992, p. 220. 17 Appellativo dato a Maria Sofia da Gabriele d'Annunzio. 18 L'Arciduca Francesco Ferdinando, poi assassinato a Saraievo, era figlio di Ludovico d'Austria e di Maria Annunziata, sorella di Francesco II, nelle sue vene, quindi, scorreva sangue borbonico. 19 In Petacco A. op .cit., p.255.


fonti da : Cesare Linzalone il carlino, www.salpan.org

LE ULTIME BANDIERE - L'ESILIO DI FRANCESCO II


FORTEZZA DI CIVITAVELLA DEL TRONTO




Francesco II l'ultimo re di Napoli, aveva lasciato per sempre il suo regno,rifugiandosi a roma; ma nel territorio delle due sicilie sventolavono ancora due bandiere borboniche: nella cittadella di Messina e nel fortino di civitavella del tronto.
Installatosi al Quirinale, Francesco ricostituì il governo, ponendovi alla presidenza l'ammiraglio Leopoldo Del Re, Antonio Ulloa direttore alla guerra, il diplomatico Giacomo De Martino agli esteri, il conte Salvatore Carbonelli alle finanze. Il corpo diplomatico estero era formato dagli ambasciatori dei paesi di quasi tutta l'Europa. Il legittimismo
Francesco, ancora non completamente rassegnato alla perdita del trono, tentò subito di organizzare la reazione con la preziosa collaborazione dell'ambasciatore spagnolo Bermùdez de Castro e di vari generali, fra i quali il valoroso Bosco. Inoltre, il fascino e la bellezza dell'eroina di Gaeta, Maria Sofia, attirava a Roma avventurieri, romantici legittimisti, ex militari, aristocratici e cavalieri da ogni parte d'Europa, per mettersi al servizio della causa borbonica. Ella, consapevole di ciò, sfruttava la sua fama che si era estesa in tutta Europa per arruolare e per organizzare bande che avrebbero svolto una durissima guerriglia contro le truppe di Vittorio Emanuele. I più famosi tra questi cavalieri del vecchio mondo legittimista furono gli spagnoli José Borjes e Rafael Tristany; i francesi Olivier Marie Augustin de Langlais, Theodule de Christen e Riviére; i tedeschi Masoratt, Ludwig Richard Zimmermann e Edwin Kalckreuth; il belga Alfred de Trazegnies de Namour. Molti di questi uomini si comportarono coraggiosamente, sacrificando, spesso, la vita in una feroce guerra civile di cui non compresero, probabilmente, le vere motivazioni.

La piazzaforte di Messina

Francesco, intanto, cercava di incoraggiare la resistenza della cittadella di Messina, inviandovi il tenente di stato maggiore Luigi Gaeta con l'ordine di difendere la fortezza e con 30000 ducati per pagare la guarnigione. Quest'ultima era formata dalle cmp fucilieri (8 ciascuno) dei rgt di linea 3° (col. Bartolomeo Aldanese), 5° (col. Francesco Cobianchi) e 7° (col. Cesare Anguissola), 4 cmp del btg pionieri del genio (t. col. Giuseppe Granata), dall'8^ direzione del genio (col. Emanuele De Nunzio) e dalla 13^ direzione artiglieria (col. Ferdinando Guillamat), più i reparti servizi, per una forza totale di 199 ufficiali e 4221 sottufficiali e soldati; numeri ridottisi, poi, da molte diserzioni. Questi uomini si ritrovavano rinchiusi dentro la fortezza dalla fine del luglio 1860, quando Clary aveva stipulato un accordo di non aggressione con Médici. La truppa era installata in un complesso di fortificazioni che occupava tutta la penisola dalla forma di falce. Il centro di tale sistema era costituito dalla cittadella, una fortezza pentagonale munita di solidi bastioni, e si completava con diverse opere tra loro collegate: dal forte San Salvatore, situato sulla punta estrema della penisola, al bastione Don Blasco, all'altro estremo.
L'artiglieria di Messina non era migliore, naturalmente, di quella di Gaeta. Era costituita da soli cannoni ad anima liscia, anche se l'ottimo ufficiale d'artiglieria Patrizio Guillamat successivamente operò per aumentarne la gittata.
A comandare la piazzaforte era il mar. Gennaro Férgola, promosso a quel grado l'8 ottobre da Francesco II per la fedeltà e la fermezza con cui stava governando la difficile situazione. Egli era nato a Napoli nel 1793, cominciando la sua carriera di ufficiale d'artiglieria nell'esercito di Murat, col quale aveva partecipato alla campagna d'Italia del 1815; passato all'esercito borbonico, partecipò alle campagne di Sicilia del 1820 e 1848, venendo decorato in quest'ultima; il 9 agosto 1860, col grado di brigadiere, era stato posto al comando delle cittadelle di Messina, Augusta e Siracusa. Inflessibile ed onesto, Férgola era deciso a resistere fino all'ultimo, reprimendo ogni tentativo di ribellione e contestazione. Malgrado ciò, tra i reparti della guarnigione ci furono diverse diserzioni; le più clamorose tra queste furono quella del col. Ferdinando Guillamat, fuggito il 21 gennaio, e quella del t. col. Achille De Michele, comandante della brigata d'artiglieria, fuggito il 23 febbraio e messosi a disposizione di Cialdini, il quale, però, rifiutò la sua collaborazione e lo cacciò via, trattandolo da traditore.
Il 27 novembre 1860 gli assedianti garibaldini erano stati sostituiti dalla brg piemontese Pistoia: circa 4000 uomini al comando del gen. Chiabrera. Questi, il 14 febbraio 1861, aveva notificato a Férgola la capitolazione di Gaeta, intimandogli, di conseguenza, la resa. Il comandante napoletano, ufficiale coraggioso e leale, aveva rifiutato, rimanendo in attesa degli ordini del Re, arrivati, come già detto, il 17 febbraio.
Pur avendo la resistenza di Messina solo un valore morale, fece andare su tutte le furie Cialdini, il quale partì per la Sicilia il 25 febbraio, accompagnato dal neopromosso generale d'artiglieria Valfré che allestì sette batterie di cannoni rigati e di mortai. A rinforzare gli assedianti giunsero pure quattro btg di bersaglieri ed un reparto del genio.
Cialdini, confermando il suo carattere brusco e irascibile, scrisse una lettera a Férgola, minacciandolo di fucilare, dopo la resa, un ufficiale della guarnigione per ogni abitante di Messina ucciso dall'artiglieria napoletana. Ma Férgola non fece tirare contro la città.
Il 12 febbraio era giunto da Gaeta il maggiore svizzero Patrizio Guillamat, inviato dal Re per assumere l'incarico di capo di stato maggiore della piazzaforte. Il mar. Férgola gli diede anche l'incarico di comandante dell'artiglieria, che svolse con coraggio, capacità ed intraprendenza, riuscendo, come su scritto, ad aumentare la gittata dei cannoni con geniali accorgimenti tecnici. Per la sua opera si meritò la croce di diritto di S. Giorgio. La cittadella aprì il fuoco nel pomeriggio dell'8 marzo, provocando lievi danni alle batterie dei colli Noviziato e Montesanto; ma già la sera il fuoco fu rallentato, poiché i vecchi affusti si erano danneggiati con il rinculo. La mattina del 12 marzo tutti i pezzi napoletani ripresero il fuoco ed una sortita fu tentata dal bastione Don Blasco, sùbito respinta. A mezzogiorno Valfré scoprì tutte le batterie, sottoponendo i bastioni nemici ad un fuoco infernale. Il forte Don Blasco, mezzo distrutto, fu abbandonato dalla guarnigione che si rifugiò nella cittadella. Pur fallendo il previsto attacco delle navi di Persano, a causa del mare mosso, la cittadella fu ridotta in brutte condizioni dalle sole batterie di terra, subendo vari incendi.
Nel tardo pomeriggio Férgola chiese una tregua per spegnere gli incendi, ma Cialdini rifiutò, pretendendo la resa senza condizioni. La sera, dopo lo svolgimento di un consiglio di difesa che si pronunciò per l'inutilità di un'ulteriore resistenza, Férgola accettò la resa. Tre giorni dopo, ormai troppo tardi, arrivò l'autorizzazione alla resa di Francesco II che, attraverso l'ambasciatore francese a Roma, aveva ottenuto che i patti della capitolazione di Gaeta valessero anche per Messina.

Civitella: l'ultima bandiera

L'ultima bandiera delle Due Sicilie sventolava ancora su Civitella del Tronto, nell'alto Abruzzo. Sebbene strategicamente di scarso valore, tanto che il corpo di spedizione piemontese l'aveva aggirata, questa fortezza, quasi inaccessibile, era utilizzata dai partigiani borbonici come base operativa e logistica per le scorrerie verso Teramo.
La guarnigione, comandata dal mag. Luigi Ascione, contava 450 uomini ed era formata da tre cmp del 3° btg di gendarmeria (245 uomini), una cmp del rgt Reali Veterani (92 uomini), una sezione di artiglieri litorali (56 uomini) e 57 soldati di vari corpi scioltisi negli Abruzzi. A settembre, sùbito dopo la partenza da Napoli, Francesco II aveva esautorato dal comando il mag. Ascione, dimostratosi troppo debole, e lo aveva sostituito col capitano della gendarmeria Giuseppe Giovane, promosso prima maggiore, poi, a gennaio, colonnello. Nell'ottobre del '60 la fortezza venne circondata dalle truppe del feroce e spietato gen. Ferdinando Pinelli, fucilatore di poveri villani. Ci furono scontri tra napoletani e piemontesi il 25 e il 29 novembre, poi il 20 dicembre, in occasione di tre sortite effettuate dalla fortezza. Rinforzato da nuove truppe e mezzi, il 30 dicembre Pinelli scagliò l'attacco, ma fu duramente respinto.
Ai primi di febbraio Pinelli fu rimosso a causa di un suo durissimo proclama che indignò tutta l'Europa. Fu sostituito dal gen. Luigi Mezzocapo, uno dei migliori ufficiali sabàudi provenienti dall'Esercito Borbonico.
Dopo la resa di Gaeta, il 18 febbraio, questi propose la capitolazione alle stesse condizioni. Accettò la resa solo il col. Giovane, mentre la gran parte della guarnigione era di parere contrario; così Giovane fu costretto a fuggire con un centinaio di uomini, consegnandosi ai piemontesi. Il mag. Ascione, invece, ripreso il comando, pretendeva un ordine diretto del Sovrano.
Mezzacapo, con più di 3000 uomini e cinque batterie di obici e mortai, scagliò l'attacco il 25 febbraio, respinto dai difensori che rotolavano bombe e macigni giù dal rìpido pendìo.
Così si tornò a trattare, e Francesco II mandò da Roma il gen. Giovambattista Della Rocca, accompagnato da un ufficiale francese, con l'ordine di arrendersi, avendo ottenuto le stesse condizioni di Gaeta. A questo punto il mag. Ascione si convinse; ma c'era ancora un gruppo di soldati contrari alla resa, aizzati dal sergente Massinelli e dal frate Leonardo Zilli. Ascione, comunque, riuscì a far penetrare i piemontesi nella fortezza la mattina del 20 marzo. Questi fucilarono sùbito Massinelli e Zilli ed arrestarono 32 militari e molti cittadini che avevano partecipato alla difesa.
Con la resa di Civitella del Tronto, dopo 200 giorni d'assedio, terminò la resistenza organizzata nelle Due Sicilie, e scompariva il regno dei Borbone di Napoli dopo 126 anni dalla fondazione. Tre giorni prima, il 17 marzo 1861, il parlamento di Torino aveva proclamato Vittorio Emanuele II re d'Italia per grazia di Dio e volontà della Nazione. CONCLUSIONE Motivazioni della disfatta. La campagna del meridione d'Italia 1860-61 ebbe uno svolgimento e una conclusione inizialmente imprevedibili. Un esercito di circa 100.000 uomini e la marina più potente tra gli Stati italiani preunitari non erano riusciti a fermare un corpo di spedizione irregolare formato, in partenza, da un migliaio di uomini e cresciuto, fino al Volturno, raggiungendo il numero di 23.000 unità.
Bisogna dire, però, che l'Esercito Meridionale aveva un forte nucleo di gente ben addestrata, circa 8-10.000 uomini provenienti dall'esercito piemontese o, comunque, réduci del '59.
La causa della vittoria garibaldina non si basò solo sulle capacità belliche dell'Esercito Meridionale, o sulla debolezza dell'Esercito Borbonico, ma su manovre diplomatiche e sulla corruzione degli alti ufficiali e dei politici napoletani. L'unico episodio in cui l'alto comando borbonico spiegò tutte le sue forze per vincere fu sul Volturno, dove fu combattuta l'unica vera battaglia dell'intera campagna. In precedenza, in Sicilia e Calabria, era stato un susseguirsi di tradimenti, inettitudini e fiacchezze. I combattimenti si erano avuti per l'iniziativa personale di alcuni valorosi ufficiali, come il t. col. Sforza a Calatafimi, il col. von Mechel a Palermo, il col. Bosco a Milazzo e il col. Dusmet a Reggio, ma mai come frutto di un disegno strategico dell'alto comando. Ne erano nati scontri in cui non vi era mai stata una decisa volontà di vincere, se non nei soldati, e che non possono prendere il nome di battaglie per lo scarso numero di uomini impiegati e per la mancanza di azioni manovrate. I soldati napoletani, Ma come si erano battuti i soldati napoletani nella campagna del '60-61? In Sicilia e Calabria la prova dell'esercito era stata disastrosa, mentre la marina si era astenuta dal battersi, consegnandosi totalmente al nemico in settembre. Tuttavia bisogna distinguere. Un giornale umoristico francese pubblicò un fumetto nel quale si vedevano un soldato, un ufficiale e un generale borbonici; il primo aveva la testa da leone, il secondo d'asino e il terzo era completamente privo di testa. Ciò rifletteva l'opinione comune. I soldati si erano battuti con coraggio, e in diversi scontri non erano stati inferiori ai loro avversari. Alcuni ufficiali si erano acquistati una certa fama, come von Mechel a Palermo e Bosco a Milazzo. Ma questi due ottimi ufficiali erano stati fermati ad un passo dalla vittoria dal tradimento dei loro superiori diretti: il gen. Lanza e il gen. Clary. Comunque esisteva il problema di un ottimo comandante generale che Francesco II non riuscì a trovare, mentre a comandare l'esercito nemico c'era l'eccezionale Garibaldi, trascinatore di uomini e capace anche nel comando di grandi unità, come dimostrò sul Volturno. Dunque, gli ufficiali napoletani furono nel complesso nettamente inferiori a quelli garibaldini, sia per capacità tattico-strategiche, sia per carisma e tenacia. In contrasto con lo sfaldamento delle alte sfere ci fu l'estrema fedeltà della truppa che, se ben comandata, si batté con coraggio e tenacia, come accadde a Calatafimi, Palermo, Milazzo, ma soprattutto sul Volturno, dove solo la sfortuna, il grande intuito di Garibaldi e la coraggiosa resistenza dei garibaldini fermarono il soldato napoletano lanciato verso la vittoria. In Calabria i soldati linciarono il gen. Briganti, scoperto a familiarizzare con un ufficiale garibaldino. Quasi nessun sottufficiale o militare di truppa napoletano accettò di entrare nell'Esercito Meridionale, cercando di raggiungere i reparti borbonici che ancora si battevano. Di questo si rammaricò Garibaldi che aveva apprezzato le qualità del soldato napoletano. I briganti Con l'intervento piemontese, la fuga di Francesco II a Roma e la proclamazione del Regno d'Italia (17 marzo 1861), i soldati napoletani di tutte le classi, meno le quattro più giovani, vennero congedate. Degli ufficiali i più preferirono congedarsi, ma un buon numero fu ammesso nell'esercito nazionale. La massa dei sottufficiali e della truppa preferirono tornare a casa, dove andarono a costituire, in parte, la spina dorsale delle formazioni partigiane, continuando a combattere contro le truppe del Savoia.
Così esplose una guerra civile durissima che insanguinò fino al 1870 tutto il meridione d'Italia. Da una parte c'era il neocostituito Regio Esercito Italiano, appoggiato dalla Guardia Nazionale (corpo di truppe territoriali di scarsa efficienza bellica). Dall'altra le bande di briganti, formate da ex militari borbonici, pastori e contadini affamati, criminali, sbandati e avventurieri stranieri. Poi, l'istituzione della leva da parte del governo italiano fornì costantemente dei rinforzi alle bande, costituiti dai numerosissimi renitenti e disertori. Infatti i giovani meridionali non erano abituati al servizio di leva di massa, e la mancanza di due braccia in una famiglia di contadini avrebbe potuto significare la fame.
Appoggiate dalla maggioranza della popolazione, soprattutto dalla parte più umile, e finanziate dal governo in esilio di Francesco II, circa 400 bande diedero filo da torcere alle truppe di Vittorio Emanuele II, con una efficace e feroce guerriglia che mise in pericolo l'esistenza stessa del Regno d'Italia. La reazione dell'Esercito Italiano fu cieca, crudele e indiscriminata, rendendo ancora più impopolare il governo di Torino. Circa 100-120000 bersaglieri, fanti, cavalleggeri, carabinieri e guardie nazionali, non solo combatterono contro i briganti, ma effettuarono rappresaglie contro i civili, fucilarono e arrestarono sospettati, bruciarono interi paesi, violentarono e torturarono.
Il mondo contadino appoggiava in massa i briganti, nascondendo i ricercati, fornendo viveri e dando informazioni sui movimenti delle truppe. Per questo pagò un durissimo prezzo, con fucilati, arrestati, deportati, abitazioni bruciate, raccolti distrutti e prepotenze varie.
Le condizioni di vita della parte più umile della popolazione del sud erano notevolmente peggiorate, dato che con l'unità d'Italia le poche fabbriche del meridione avevano chiuso, mentre il governo di Torino avviava un sistema fiscale molto pesante, vendeva le terre demaniali (di pubblico utilizzo) e della chiesa ai latifondisti e chiamava alle armi i giovani. Questa fu la causa principale del rifiuto del popolino meridionale a riconoscere lo Stato italiano, che veniva identificato con i carabinieri, gli agenti del fisco e i baroni. Questi ultimi, meridionali anch'essi, erano i più accesi sostenitori di una dura repressione del brigantaggio, accontentati con zelo dagli ufficiali settentrionali che vedevano nel mondo contadino meridionale una realtà estranea ed incomprensibile. La nobiltà borbonica, infatti, aveva fatto presto a tradire la dinastia napoletana, accordandosi con i Savoia in cambio della conservazione del potere politico ed economico.
Per vincere la dura resistenza dei briganti, il parlamento italiano votò una legge estremamente anticostituzionale, la Pica (dal nome del deputato abruzzese che la propose), che prevedeva la competenza dei tribunali militari sui reati di brigantaggio, nonché il domicilio coatto, gli arresti senza mandato e la fucilazione per vari tipi di reati, anche non gravissimi. Furono condannate madri colpevoli di avere portato un po' di cibo ai figli latitanti nelle campagne; furono fucilati ragazzi, donne, vecchi, preti e frati, oltre agli stessi briganti. L'operato dei tribunali militari fece inorridire anche molti unitari e piemontesi. Tutto in nome della libertà, perché fosse sradicato il ricordo del Borbone liberticida.
La prima fase del brigantaggio, 1860-65, fu caratterizzata da una maggioranza di componenti politiche e sociali. Nella seconda fase, 1865-70, prevalsero il banditismo e la rivolta anarcoide, senza precisi obiettivi politici. Col passare degli anni, insomma, il brigantaggio divenne sempre più "malandrinaggio".
Nel 1870 l'apparato repressivo unitario riuscì a smantellare tutte le bande, grazie anche alla conquista dello Stato Pontificio che era servito come luogo di rifugio ai briganti inseguiti. Il prezzo della sconfitta del brigantaggio fu enorme: diverse migliaia furono i caduti fra le fila dell'esercito, della Guardia Nazionale e delle squadriglie di irregolari. Circa 12000 (ma la cifra non è certa) furono i caduti ed i fucilati tra i ribelli. Impossibile stabilire il numero dei civili assassinati dai briganti e fucilati dalle truppe italiane. Molto alto il numero degli arrestati e degli inviati a domicilio coatto. Enormi furono anche i danni materiali, sia per il solo sud che sprofondò nella miseria più nera, diventando la zavorra d'Italia, sia per l'intero Regno italiano che dovette impiegare notevoli risorse nella repressione. Il prezzo più alto fu, però, quello morale e civile. Gli strati più deboli della popolazione impararono a vedere nello Stato il principale nemico. I Sovrani in esilio Intanto, Francesco II e Maria Sofia si erano trasferiti a palazzo Farnese, di proprietà dei Borbone, e da lì continuarono la loro attività di organizzazione delle bande legittimiste, con la speranza di riconquistare il Regno. Ma col passare degli anni il Re svolse questa attività con sempre minore convinzione e con un patrimonio che andava sempre più a ridursi per le ingenti cifre spese per finanziare le bande. Una grande gioia allietò la triste permanenza romana dei Sovrani il 24 dicembre 1869: la nascita della prima figlia, Maria Cristina Pia. Pur essendoci la delusione sul sesso (una femmina non poteva ereditare il trono), il lieto evento fece rinascere la speranza sulla nascita di un erede. Ma la speranza fu presto soffocata dalla prematura morte della bambina il 28 marzo 1870. Fu l'unica figlia. Francesco e Maria Sofia ne rimasero sconvolti e, prima dell'entrata delle truppe italiane a Roma (20 settembre 1870), partirono, girovagando per l'Europa e finendo per stabilirsi a Parigi.
Francesco II, l'ultimo Re di Napoli, morì ad Arco di Trento (territorio dell'Impero Austro-ungarico), in Gardesana, il 27 dicembre 1894, all'età di 58 anni. Maria Sofia gli sopravvisse trentun anni, morendo il 18 gennaio 1925, all'età di 83 anni. Su Francesco II di Borbone non è facile dare una valutazione, dato che non ebbe il tempo di svolgere una politica personale, regnando solo un anno, dal 22 maggio 1859 al 6 settembre 1860. Tìmido, schivo e politicamente impreparato, Francesco fece molti errori, ma, sostenuto dalla coraggiosa consorte Maria Sofia, riuscì a cadere con dignità, riunendo attorno a sé la parte più fedele dell'esercito e combattendo per l'indipendenza delle Due Sicilie fino a Gaeta, l'ultimo lembo di terra del suo Regno. Così la storia del Regno delle Due Sicilie si chiuse con un esempio di dignità e coraggio dei suoi ultimi Sovrani. Illuminato dal sacrificio di questa coppia reale, non avrebbe potuto scomparire in modo migliore dalla scena politica europea.

FONTE : http://cronologia.leonardo.it/storia/a1860m.htm



sabato 26 gennaio 2008

IL GENERALE JOSE' BORJES: VALOROSO SOLDATO CRISTIANO

In località La Lupa, comune di Sante Marie, un cippo marmoreo collocato dall'amministrazione comuna­le e dal Militare Ordine Costantiniano di San Gior­gio ricorda che lì, l'8 dicembre 1861, «s'infranse l'il­lusione del gen. José Borjès e dei suoi compagni di re­stituire a Francesco II il Regno delle Due Sicilie. Cattu­rati da soldati italiani e guardie nazionali di Sante Marie al comando di Enrico Franchini furono fucilati lo stes­so giorno a Tagliacozzo». Dall'8 dicembre 2003 questo cippo, sostituendo il precedente, che definiva Borges (o Borjés come si continua a scrivere in Italia) e i suoi se­guaci, spagnoli e “duosiciliani”, banditi e mercenari, ne riabilita ufficialmente la memoria, riconoscendo la digni­tà, morale e politica, della causa per la quale si batteva­no, che tuttavia andava ben oltre la semplice restaura­zione della monarchia borbonica. In realtà, tanto questa quanto l'unificazione politica ita­liana (per come la intesero e realizzarono i suoi prota­gonisti) si inquadrano nello scontro epocale fra due ci­viltà che, dopo oltre due secoli di preparazione, ebbe in Francia nel 1789 la prima esplosione in armi. Da entram­bi i lati della barricata se ne era consapevoli. Non per nulla, per molti anni dopo la proclamazione del Regno d'Italia anche su giornali ufficiali ed ufficiosi si continuò a scrivere che le lotte per l'unificazione politica della na­zione italiana non erano «rispetto all'umanità, null'altro che mezzi per conseguire quel fine, che a lei sta somma­mente a cuore, della totale distruzione del medioevo nel l'ultima sua forma: il cattolicesimo» (così scriveva Il Di­ritto dell'11 agosto 1863, il giornale che svolgeva la fun­zione di portavoce ufficioso di Agostino Depretis). Nel campo opposto, nella primavera del 1861, la notizia dell'insurrezione del popolo napoletano contro il nuovo potere "piemontese" aveva entusiasmato i legittimisti di tutta Europa per il ritorno della Vandea, di una nuova Vandea che avrebbe saputo infliggere ai "giacobini" una sconfitta definitiva. È questa convinzione a spiegare l'accorrere da tutta Eu­ropa (e addirittura dagli Stati Uniti e dal Canada) di vo­lontari pronti a battersi per restituire il trono a Francesco II. La simpatia per il giovane re, brutalmente spodestato contro tutte le regole del diritto internazionale, vi aveva la sua parte, ma la molla profonda era la consapevolez­za di un nuovo scontro fra il "vecchio" mondo, nel qua­le la distinzione fra Dio e Cesare non negava l'influenza sociale della religione e l'obbligo del potere politico di ri­spettare i principi essenziali di un naturale ordine supe­riore (nient'altro significa la formula tradizionale "Trono e Altare"), e il "nuovo", deciso a distruggere la religione (e in particolare il cattolicesimo) o, nei più moderati, a ri­durla a un fatto intimistico e privato.Di questa guerra José Borges, nato nel 1813 a Fernet, piccolo villaggio catalano, fu per tutta la vita consape­vole protagonista. Figlio di un militare legittimista e cre­sciuto nel clima e nel ricordo della gloriosa insurrezione del popolo spagnolo contro le armate napoleoniche, non ebbe esitazione a partecipare, ancora giovanissimo, alle "guerre carliste", schierandosi fra i legittimisti, che appoggia­vano le aspirazioni al trono di don Carlos, fratello di Ferdinan­do VII, contro i liberali, sostenitori di Isabella, figlia minoren­ne del defunto re, e della reggente Maria Cristina. Costretto dalla sconfitta all'esilio in Francia, Borges accettò con entusiasmo la proposta dei comitati borbonici di recar­si nell'Italia meridionale per dare organizzazione militare agli insorti (i "briganti" della nostra storiografia ufficiale) e assu­merne il comando, ma si accorse ben presto che le capaci­tà organizzative dei comitati non erano all'altezza dell'impre­sa. Quando, nella notte fra il 13 e il 14 settembre 1861, sbar­cò, con 18 spagnoli e 2 napoletani, sulla spiaggia di Gerace, nei pressi di Capo Spartivento, non solo non trovò ad attenderlo i duemila uomini ben armati che gli erano stati promessi, ma il momento d'oro dell'insorgenza borbonica, quando paesi e piccole città accoglievano in trionfo gli insorti sventolando le bianche bandiere gigliate, era passato e il paese giaceva prostrato sotto la cupa violenza di una feroce repressione. Nonostante la delusione Borges volle persistere nell'impresa, utilizzando il migliaio di uomini che al comando di un contadino di Rionero, Carmi­ne Donatello Crocco, pur costretti dalla controffensiva "piemontese" ad abbandonare i maggiori centri abitati, tenevano sotto controllo un vasto territorio fra Calabria e Lucania. Tuttavia Borges era troppo buon cristia­no e troppo soldato per tollerare l'eccessiva inclinazione alla violenza e al saccheggio di Crocco, che considerava un brigante e che, a sua volta, mal sopportava di obbedire ad un forestiero di troppi scrupoli. Il fallimen­to, dopo alcuni illusori successi, del tentativo di prendere Potenza per in­sediarvi un governo provvisorio rese inevitabile la separazione. Crocco, in vista dei difficili approvvigionamenti invernali, suddivise l'armata con­tadina in piccoli gruppi; Borges, con una dozzina di spagnoli e otto “duo­siciliani”, prese la via di Roma per fare rapporto al re.
Il viaggio, con freddo intenso fra le montagne abruzzesi coperte di neve, è reso ancora più duro dalla necessità di evitare le pattuglie di bersaglie­ri e guardie nazionali. Nella tarda notte fra il 7 e l'8 dicembre nei pressi di Tagliacozzo, a quattro miglia dal confine pontificio, la salvezza è a porta­ta di mano, ma i napoletani, che non hanno cavalcature, non sono in gra­do di proseguire. Per non abbandonarli il generale ordina una breve so­sta alla cascina Mastroddi in località La Lupa.
La decisione segna il destino di tutti. Poche ore dopo la cascina è circon­data dai bersaglieri del maggiore Enrico Franchini. Nello scontro cadono tre spagnoli. Gli altri sono costret­ti ad arrendersi dopo che il maggiore ha fatto ap­piccare il fuoco ai piani bassi della fattoria. Da sol­dato, Borges porge la spada al maggiore che, sprezzante, la rifiuta.
I prigionieri sono trasportati a Tagliacoz­zo e qui, verso le otto della sera, fretto­losamente fucilati. Il Franchini concede un confessore, ma nega la fucilazione al petto. Lo spagnolo Pedro Martinez chie­de un foglio e, anche a nome dei compa­gni, scrive un ultimo messaggio: «Gesù e Maria. Noi siamo tutti rassegnati ad esse­re fucilati. Addio. Ci ritroveremo nella valle di Giosafat; pregate per tutti noi». La scari­ca dei fucili tronca le preghiere recitate ad alta voce dai condannati.

di di Francesco Mario Agnoli fonte: www.editorialeilgiglio.it