venerdì 5 dicembre 2008

Così il Nord inquina il Sud La mappa dei traffici illegali

Dopo la denuncia di Napolitano, basta seguire il filo delle inchieste per scoprire i mille rivoli atraverso cui, negli anni, la malavita e aziende con pochi scrupoli hanno trasportato al Sud tonnellate di rifiuti tossici prodotti nelle regioni settentrionali

L'ultima l'inchiesta si chiama "Eco boss" e ha portato, due mesi fa, all'arresto di un presunto boss dei Casalesi, al sequestro di aziende attive nel settore dei rifiuti e di terreni a destinazione agricola dove per anni è stato seppellito materiale proveniente dal nord Italia.
Ma bisogna risalire indietro nel tempo per scoprire le vie del traffico illegale di rifiiuti tossici dal Nord verso il Sud dell'Italia.
Diciassette anni fa l'autista di camion Mario Tamburrino, si presentò in ospedale dicendo di aver subito un fortissimo abbassamento della vista dopo aver scaricato alcuni bidoni di scorie tossiche provenienti dalla ditta Ecomovil di Cuneo in una discarica di Sant'Anastasia.
Dopo le parole di Napolitano, basta seguire il filo delle inchieste per scoprire che tra i veleni di Napoli non mancano i "contributi"di aziende del Settetrione,


ECOBOSS L'inchiesta Ecoboss, ad esempio, si basa su alcune intercettazioni risalenti a diversi anni fa e su recenti rivelazioni del pentito Domenico Bidognetti, cugino del boss Cicciotto è Mezzanotte. Per non sostenere il costo del regolare smaltimento dei rifiuti - sostiene l'accusa dei pm di Napoli - l'organizzazione ha simulato nel tempo attività di compostaggio in realtà mai effettuate, smaltendo invece abusivamente, su terreni agricoli rifiuti costituiti, tra l'altro, da fanghi di depurazione provenienti in gran parte da aziende della Lombardia, per un quantitativo di oltre 8.000 tonnellate di rifiuti ed un guadagno di circa 400mila euro.
Dagli atti dell'inchiesta emerge che da dicembre 2002 a febbraio 2003 l'impianto "Rfg srl" (uno di quelli sequestrati, ndr) ha 'giratò in una cava del casertano circa 6mila tonnellate di rifiuti urbani provenienti dal consorzio "Milano Pulita".
Lo racconta Elio Roma (il gestore della Rfg, indagato nell'inchiesta, ndr): "ricordo che nel dicembre 2002 Cardiello (un intermediario, ndr) mi propose di ricevere il materiale dal consorzio Milano Pulita. Fu per questo che effettuammo alcuni viaggi e scaricammo nel mio impianto. Poichè non mi convinceva l'odore del materiale dissi a Cardiello di bloccare i conferimenti ma lui mi pregò di ricevere i materiali dicendo che 'aveva degli impegni da rispettarè. Io gli dissi chiaramente che non potevo perchè il materiale puzzava e la gente del paese si sarebbe ribellata".
Ma anche le cave di Pianura, dove a gennaio scoppiò la rivolta, hanno un legame con il Nord.
L'inchiesta è affidata al pm Stefania Buda che dal racconto di alcuni testimoni ha scoperto che almeno dal 1987 al 1994 nella discarica sono finite centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti ospedalieri, fanghi speciali, polveri di amianto, residui di verniciatura, alimenti avariati o scaduti provenienti, tra l'altro da aziende presenti in alcuni comuni del torinese (Chivasso, Robossomero, Orbassano), del milanese (San Giuliano Milanese, Opera, Cuzzago di Premosello, Riva di Parabbiago, del pavese (Parona) e del bolognese (Pianoro). E sempre a Pianura sarebbero i rifiuti dell'Acna di Cengio.

RE MIDA L'inchiesta "Re Mida" ha accertato che dal novembre 2002 al maggio 2003 sarebbero arrivati in Campania dal centro nord 40mila tonnellate di rifiuti, tra cui oli minerali derivati dalla lavorazione di idrocarburi, Pcb (pliclorofenili), fanghi industriali.

ADELPHI L'operazione "Adhelphi" nel '93 portò invece alla luce gli intrecci tra camorra e politica anche per quanto riguarda il controllo delle discariche: furono emesse 116 ordinanze di custodia cautelare nei confronti di esponenti della malavita, amministratori e imprenditori.

I PENTITI Anche i pentiti hanno detto la loro sulla provenienza dei rifiuti. E non si tratta di pentiti qualunque: nell'inchiesta 'Spartacus', Carmine Schiavone, il cugino di Francesco "Sandokan" Schiavone, mise a verbale: "la camorra ha riempito gli scavi realizzati per la costruzione della superstrada Nola-Villa Literno sostituendo il terriccio con tonnellate di rifiuti trasportati da tutta Italia".

fonte:http://www.laprovinciadivarese.it/stories/Attualit%C3%A0/12502/

Unioncamere: Italia a due velocita', il divario Nord-Sud aumenta

Si allarga la forbice tra Nord e Sud: nel 2007, la media nazionale del Pil tra le due zone del Paese ha mostrato una differenza di 713 euro a testa. Se per ogni italiano il Pil pro capite è di 25.921 euro, quello del Centro-Nord è stato di 30.505 euro, quasi il doppio dei 17.433 euro del Mezzogiorno.

Secondo le stime di Unioncamere, rese note in occasione dell'Assemblea, rispetto al 2006, nelle regioni più sviluppate del Paese l'incremento della ricchezza prodotta per abitante è stato di 1.143 euro, nel Mezzogiorno di 430. Ovvero, la forbice della ricchezza prodotta tra Centro-Nord e Sud si è allargata in un anno di ulteriori 713 euro a testa. Tra la prima e ultima provincia italiana, il divario continua a crescere anche quest'anno: la ricchezza prodotta nel 2007 attribuibile a un crotonese (14.548) e' pari al 36,9% di quella prodotta da un milanese (39.442 euro). Il gap nel 2006 era del 37,6%.

Le prime 65 posizioni della classifica nazionale, secondo la ricerca realizzata da Unioncamere e Istituto Tagliacarne, sono occupate tutte da province del Centro-Nord. Alle spalle di Milano, le province ad alto livello di ricchezza prodotta sono Bologna, Bolzano, Aosta e Modena. Quindi Roma, che mantiene un saldo sesto posto, seguita da Firenze. Al capo opposto, Crotone, preceduta da Enna, Agrigento, Foggia e Lecce.

Unioncamere evidenzia che nella graduatoria del Pil provinciale totale Cremona si impone come la provincia che fa segnare, rispetto al 2006, la performance più significativa (+7,0%) in una classifica che vede solamente aree del Centro-Nord fra le tredici province più dinamiche. Il Lazio ottiene un ottimo risultato che non è da ascrivere solamente a Roma (seconda in classifica per dinamiche di crescita con un +6,9%), ma anche a Frosinone (terza con il 6,8%) e Rieti (ottava con un +6%). Per il Veneto da segnalare Verona (quarta, +6,8%), Padova (nona, +6%) e Belluno (undicesima, +5,7%). Anche la Lombardia ha una significativa presenza nella top ten delle variazioni del prodotto interno lordo totale, con ben quattro province (Cremona, prima, e Bergamo, Brescia e Sondrio rispettivamente quinta, settima e decima in termini di dinamica) alle quali si aggiungono Pavia e Lodi (dodicesima e tredicesima). Non brillanti risultano invece, in un confronto su base annua, le dinamiche delle province liguri, che si collocano tutte a partire dalla settantacinquesima posizione di Imperia con Savona, La Spezia e Genova posizionate dal 98esimo al 100esimo posto.

Per quanto riguarda il Mezzogiorno, Taranto è la provincia con la maggior crescita (+5,5%,) seguita da Sassari (+5,1%) e Cagliari (+4,8%). Agli ultimi due posti della graduatoria nazionale in termini di crescita si collocano Caltanissetta ed Enna (quest'ultima presenta addirittura una minima recessione in termini monetari).

Fra le migliori performance, quelle di Sondrio e Pisa (dieci le posizioni recuperate). Il capo opposto della graduatoria è occupato da Lecco e Alessandria, scese entrambe di undici posti, Nuoro (meno dieci posizioni) e Trento (meno nove).

fonte:http://www.rainews24.rai.it/notizia.asp?newsid=76696

IL SUD DOPO L'UNITA' D'ITALIA -UNA STORIA CHE NON FU.


La politica economico-sociale nel meridione del nuovo stato italiano dopo
la conquista dei territori borbonici. Fu colonialista il regno venuto dal nord?


di STEFANIA MAFFEO

Una storia che non fu. Un'espressione adatta a definire la storia negata del Sud Italia. Si può affermare che i governi "nordisti" hanno praticato il "colonialismo in casa?" Noi vogliamo andare oltre, scoprire quanto questa politica ha ritardato lo sviluppo del Meridione, il senso più nascosto di questo tema che gli studiosi ed i politici italiani scoprono e denunciano, e poi, subito dopo, dimenticano, rilanciano, per poi tornare a dimenticare.

L'economia del Sud è stata sempre una forma di pura sopravvivenza, è stata tagliata fuori dai ritmi e dai livelli del mercato comune nazionale ed europeo. È sempre stata convinzione comune che il problema del Sud fosse un problema locale e settoriale, una questione straordinaria e territorialmente circoscritta, come se il Mezzogiorno fosse una riserva indiana. In realtà è un problema centrale di indirizzo, di orientamento politico ed economico fondamentale dello Stato.

Al fine di chiarire i punti citati è necessario un excursus storico della situazione socio - economico - industriale negli ultimi anni del Regno delle Due Sicilie per poi affrontare il tema delle varie politiche economico - sociali dello Stato italiano nel Meridione dopo l'unificazione. I problemi del Mezzogiorno erano quelli della ristrettezza economica, della staticità delle strutture burocratiche e ministeriali, del protezionismo e del fiscalismo, che non agevolarono certo la formazione di vasti ceti imprenditoriali moderni, come anche non permisero di assimilare e tradurre in atto i progetti dei riformatori: caratteristiche che assunsero forme ancora più gravi ed acute quando il confronto si fece con le aree del Nord e con le leggi dello Stato post - unitario.
A questo punto il problema dei problemi divenne politico, perché investiva la responsabilità dell'intera classe politica nazionale, i suoi governi ed il Parlamento. Il Sud borbonico era un paese strutturato economicamente sulle sue dimensioni. Essendo, a quel tempo, gli scambi con l'estero facilitati dal fatto che nel settore delle produzioni mediterranee il paese meridionale era il più avanzato al mondo, saggiamente i Borbone avevano scelto di trarre tutto il profitto possibile dai doni elargiti dalla natura e di proteggere la manifattura dalla concorrenza straniera.

Il consistente surplus della bilancia commerciale permetteva il finanziamento di industrie, le quali erano sufficientemente grandi e diffuse. Il sistema economico del Regno delle Due Sicilie era basato, analogamente a quello degli altri Stati italiani, sul settore primario. Il settore agricolo era infatti la fonte più importante e in talune zone l'unica fonte di lavoro e di ricchezza. Il sistema produttivo del Regno delle Due Sicilie era costituito precedentemente da imprese di medie e piccole dimensioni; tra queste svettava per il numero di occupati quella delle costruzioni, seguita da quella tessile e da quella alimentare.
L'industria siderurgica e metallurgica era il settore più prestigioso e tali imprese erano specializzate nella fornitura di materiali ferroviari all'esercito ed alla marina militare e mercantile. L'industria tessile si suddivideva tra il comparto della seta, del cotone e della lana.

Il sistema tributario, elaborato e supervisionato da Luigi de' Medici, era poggiato principalmente sul connubio tra Imposte Dirette e Imposte Indirette sui consumi; queste ultime fondate quasi esclusivamente sui Dazi. Minore importanza avevano le imposte indirette sui trasferimenti di ricchezza, quali l'imposta di registro e di bollo.
Negli ultimi anni pre-unitari si andò accentuando la tendenza del governo borbonico a favorire la capitale e le zone vicino a scapito del resto del Regno, quasi i due terzi delle spese statali, provinciali e comunali per le opere pubbliche venivano assorbite da Napoli e dalla provincia di Terra di Lavoro. Vi era una sola banca, il Banco delle Due Sicilie per i domini al di qua del Faro, con una sola succursale a Bari.
In Campania si concentrarono le linee ferroviarie costruite prima del 1848 (Napoli-Torre Annunziata-Castellamare e Napoli-Caserta-Capua), mentre altre erano in costruzione: la Torre Annunziata-Salerno e la Capua-Ceprano; da non dimenticare che la prima linea ferroviaria è datata 1839 ed è la Napoli-Portici.

L'ultimo decennio borbonico si svolge in una capitale assonnata, priva dei suoi figli migliori, dominata dalla polizia regia, non più amata dal sovrano i cui fratelli, compreso il liberaleggiante Leopoldo, non danno esempi di buona vita, imperanti i rancori, i sospetti, le denunzie. Ma le province sono meno inerti e si preparano in gran segreto, i grandi esuli collaborano al piano unitario che Cavour va pazientemente intessendo; altri diffondono il verbo mazziniano.
Nel 1859 muore Ferdinando II e gli succede Francesco II; la favolosa impresa dei Mille conclude il suo iter il 7 settembre 1860, quando Garibaldi entra trionfalmente a Napoli senza colpo ferire, proclamando l'annessione della città al regno sabaudo ed il prossimo plebiscito d'approvazione (1).
Dopo un'accanita resistenza di mesi, l'ultimo Borbone si arrende e, nel 1861, lascia per sempre il suo regno.

Il 1860 rappresenta per il Mezzogiorno d'Italia uno spartiacque storico. Il vecchio mondo borbonico, con le sue tradizioni e consuetudini, lascia il passo a nuovi uomini e nuove culture. Al di là dell'inevitabile retorica, il passaggio è traumatico. Sulle rovine dell'antico regime si impone uno Stato unitario e centralista, relativamente moderno, ma culturalmente distante dalla realtà del Sud Italia.
Nel 1860 la società meridionale viene incorporata in un sistema più ampio, nel quale erano presenti i germi di uno sviluppo capitalistico e di una trasformazione della monarchia amministrativa in un regime liberale - cioè i germi di un "altro" modello di sviluppo - e ciò determina la subordinazione economica e politica del Sud nei confronti delle altre parti d'Italia, anche a causa della <> denunciata dal giurista Pasquale Stanislao Mancini (1817/1888), che aveva prodotto <>.

Duro il trapasso, duro l'inizio del nuovo regime. Già è difficile assuefarsi di colpo alla libertà, già è difficile osservare i doveri che essa comporta, ma per il Meridione la cosa era più grave, in quanto le libere istituzioni venivano ad applicarsi in un'area e ad un popolo da secoli abituati ad un'amministrazione paternalistica ed autoritaria insieme, al timore ed all'inosservanza delle leggi e dei regolamenti.
Intanto le prime elezioni del 1861 videro il trionfo della linea cavouriana ed il progressivo allontanamento dai luoghi decisionali della sinistra costituzionale: si aprì così per il Meridione un periodo di profondi travagli. Sicuramente la rivoluzione industriale nacque in Italia con forti ritardi e condizionamenti. L'economia italiana, infatti, al compimento dell'unità nazionale, era basata su attività agricole di tipo tradizionale. La mancanza di unità politica, la carenza di materie prime, di grandi capitali disponibili per gli investimenti necessari e di adeguate infrastrutture ( rete stradale e ferroviaria, sistema dei trasporti, ecc…) avevano ostacolato il formarsi di un apparato industriale moderno.

L'inizio dello sviluppo industriale italiano toccò solo alcune zone e non conobbe una diffusione uniforme; avvenne soprattutto nei settori tessile ed alimentare, che richiedevano tecnologie non molto avanzate, una forte utilizzazione della forza - lavoro e la possibilità di sfruttare forme di energia naturale come quella idrica. Solo in seguito si svilupperanno altri settori, come quello metallurgico, meccanico e chimico, in seguito alla svolta impressa dall'utilizzo dell'elettricità nel progresso dell'industria. La sua introduzione fu un fattore che rese competitive le nostre fabbriche con quelle degli altri paesi europei. Non possiamo, però, dimenticare che il processo industriale al Nord fu favorito dal sistema delle comunicazioni, che avvicinò ulteriormente il Piemonte, la Lombardia ed il Veneto ai mercati di sbocco.

Già negli anni Ottanta del XIX secolo l'intera valle del Po costituiva il polmone dell'industria manifatturiera nazionale e, attorno agli anni Novanta, in Italia del Nord la grande industria meccanica aveva fatto salti da gigante.
Questo balzo in avanti non si spiega ancora senza tenere conto di un altro importante fattore, quello politico, che è rappresentato, nel periodo crispino, dalle finalità dello Stato nazionale, impegnato a conseguire un livello di grande potenza, finalità che non sarebbe stata possibile conseguire senza l'introduzione di una siderurgia pubblica, senza l'incremento delle spese militari e la costruzione di fabbriche d'armi, senza il potenziamento delle infrastrutture, senza il rafforzamento della finanza attraverso la fondazione della Banca Commerciale e del Credito Italiano, per iniziativa delle grandi banche tedesche. Necessariamente anche la composizione del capitale cambiò: quello fisso (le macchine) assunse un peso più decisivo nei nuovi settori della produzione industriale.

In breve, all'origine del grande balzo economico del Nord è un complesso di fattori che non sono solo riferibili alle condizioni economiche locali, più o meno favorevoli, ma anche a certe scelte politiche fondamentali, che indubbiamente avvantaggiarono le aree potenzialmente più promettenti e socialmente avanzate, che erano quelle settentrionali del famoso triangolo industriale (Milano - Torino - Genova).

Potremmo sintetizzare in questi termini l'arretratezza del Mezzogiorno rispetto all'economia lombarda e piemontese: agricoltura latifondista e piccola proprietà contadina frammentata, commercio agricolo molto scarso e, peraltro, nelle mani di grossi mercanti, che speculavano soprattutto sul grano. Solo alcune zone producevano per il mercato, perlopiù quelle che avevano sbocco al mare. Le zone più interne, sprovviste di un efficiente sistema viario, erano appena in grado di produrre per i propri consumi. Se si confronta il Mezzogiorno con la situazione del Nord, ci si può rendere conto di come, nel caso di quest'ultima, la vicinanza dei mercati centroeuropei abbia facilitato il più rapido progresso dei commerci e l'accumulazione della ricchezza.

Sicuramente va anche considerata la politica dei governi borbonici (costantemente in apprensione per lo spettro delle carestie e delle ribellioni del popolo), che si era sempre preoccupata di mantenere basso il prezzo del grano e dei generi alimentari, non favorendo l'esportazione.
Il settore rispetto al quale i governi "unitari" succedutisi dopo l'eliminazione del Regno delle Due Sicilie hanno fatto sentire maggiormente i loro effetti negativi è proprio quello industriale, abbastanza discreto a livello produttivo prima dell'Unificazione.
Nella politica economica successiva alla conquista del 1860 manca una strategia capace di rendere più moderni i modi di produzione e di allargare i mercati dei settori artigianali e domestici. Mancano anche interventi finalizzati al mantenimento di quelle condizioni che avevano favorito la localizzazione dei settori dell'industria moderna nel Meridione. I motivi veri dell'enorme divario tra Nord e Sud sono da ricercare in diversi fattori che vanno oltre le affermazioni di Benedetto Croce che ne attribuisce le cause alle strutture istituzionali ed organizzative; oppure di Antonio Gramsci che, comunque, concorda col Croce sulla diversità organizzativa delle città e dei centri urbani nel Nord ed il sistema feudale del Sud. Effettivamente l'Italia unita segnò, in altri termini, il trionfo di una proprietà di "parvenus" emersi in seguito alla lenta erosione giuridica ed al ridimensionamento economico dell'eredità feudale del Medio Evo perseguiti ininterrottamente nelle Due Sicilie dal 1734 in poi.

Si trattava di piccoli borghesi avidi e senza tradizioni cui i governi francesi di occupazione spalancarono le porte nel 1806, con il pretesto delle leggi eversive della feudalità, e che costituirono la quinta colonna su cui poterono fare affidamento i registi che, da Torino, telecomandarono prima la spedizione dei Mille e poi l'invasione piemontese. L'unico scopo di questa classe fu quello di sottrarre la maggiore quantità di prodotti a contadini sempre più declassati ed impoveriti. È stato affermato, non a torto, che questa borghesia rapace ed opportunista, spina nel fianco dei governi borbonici e trionfatrice dopo l'annessione, non gestì la terra, ma organizzò il saccheggio sistematico delle risorse naturali del Sud, impadronendosi delle terre di uso comune. Lo fece attraverso l'oppressione sistematica dei contadini ormai disarticolati e costretti a lavorare di zappa frammenti di terra diversi ogni anno, senza alcuna possibilità di organizzare la propria attività produttiva. Altre cause di differenziazione vanno ricercate nella morfologia del suolo e del clima, secco, arido e privo di minerali per il Sud; la distanza dai mercati europei, nonché dai luoghi che avevano iniziato la rivoluzione industriale. Queste differenze non fecero altro che accelerare l'evoluzione del Settentrione, a fronte di un forte ritardo del Meridione; si verificò quello che alcuni chiamarono effetto cumulativo del processo di crescita e che portò ad uno sviluppo del tipo "Gesellschaft" ( evoluzione rapporti sociali e propensione al mutamento) al Nord e "Gemeinschaft" ( organizzazione familiare dominata da costumi e tradizioni) al Sud (2). Se poi a questo si aggiunge la politica di governo, nel decennio 1878/1887, con l'aumento tariffario che, aumentando i dazi su grano e beni industriali, significò per il Sud la chiusura dei mercati esteri (Francia in particolare), allora ecco che si spiega il fallimento del Meridione. Al Sud non si era verificato alcun processo di sviluppo agrario, anche grazie agli accordi intercorsi tra Cavour e la borghesia terriera meridionale.
Sta di fatto che, dopo il 1861, dopo l'unione forzata in un "grande Stato", di fronte alla spoliazione economica cinicamente progettata dai gruppi di potere che sponsorizzavano il nuovo governo "unitario" di Torino, alle masse popolari del Sud non restò altro che la strada della resistenza armata che gli storici del nuovo regime chiamarono "brigantaggio". Si trattò, in realtà, di una feroce guerra civile durata quasi un quindicennio, che provocò migliaia di morti e decine di migliaia di carcerazioni.

Nel 1861 Diomede Pantaleone scrisse a Minghetti: <<>>. Quando questa eroica resistenza fu piegata in un mare di sangue e di inaudite sofferenze, alla sconfitta militare e politica i diseredati meridionali, privati violentemente delle non infondate speranze di sviluppo costruite pazientemente per decenni dai governi delle Due Sicilie, risposero con l'emigrazione di massa, che dette il colpo fondamentale anche per la conseguente crescita di una massa inattiva che viveva sulle rimesse e sui pochissimi lavoratori rimasti. Tutto questo portò all'enunciazione dell'economista classico-liberal americano G. Hildebrand: << …in mancanza di un drastico intervento dello Stato, il Mezzogiorno era condannato fin dall'inizio; incapace com'era di difendersi, poteva solo tentare di diminuire in qualche modo l'enorme divario che lo separava dal Nord più fortunato>>.

Riassumendo, dopo l'Unità d'Italia, la divaricazione fra Nord e Sud era data essenzialmente dalla diversità dei quadri sociali ed economici che, mentre nel Settentrione avevano assunto già una configurazione di tipo capitalistico, nel Meridione si erano fermati ad uno stadio precapitalistico di tipo feudale caratterizzato da una tendenza conservatrice e di gretto immobilismo negli alti gradi della borghesia. Il ceto medio meridionale, inoltre, a differenza di quello settentrionale, era subordinato all'aristocrazia nobiliare e, quindi, incapace di poter assurgere al rango di nucleo propulsore dello sviluppo e dell'indispensabile processo di rinnovamento.
La politica adottata dalla classe dirigente post-unitaria non solo ignorò, di fatto, il problema del divario sorto con l'unificazione, ma lo accentuò mettendo in crisi l'iniziativa industriale del Sud già esistente, come nel caso dell'unificazione dei sistemi finanziari e del nuovo sistema tributario.
Nel prelievo fiscale, infatti, nella seconda metà dello '800 si realizza una forte sperequazione Nord e Sud, soprattutto per quel che riguarda la spesa pubblica. Nello stesso periodo, inoltre, si realizzava il trasferimento verso il Nord di notevoli mezzi finanziari dal Meridione per sanare il deficit pubblico del Piemonte, rilevante a causa delle guerre sostenute e dal continuo potenziamento dell'esercito.
Per il Sud, così, si veniva a creare una situazione di sudditanza finanziaria che, oltre a mortificare gli slanci imprenditoriali, ne impediva lo sviluppo. Le industrie esistenti nel Regno delle Due Sicilie, in modo particolare quelle napoletane e salernitane, operanti nel campo meccanico, siderurgico e della lavorazione di lino e canapa, denotavano una certa vitalità e prosperità, anche se la loro attività era protetta dalle tariffe doganali borboniche e da una forte domanda dello Stato stesso.

Il più moderno nucleo industriale del settore tessile era ubicato in Campania, avente come base la direttrice geografica Napoli - Salerno. In quest'area, quasi tutta nelle mani di imprenditori svizzeri, la filatura meccanica era tecnologicamente avanzatissima. Il ramo metalmeccanico costituiva l'altro punto di forza dell'industria meridionale post-unitaria, anche se era totalmente affidata alla gestione pubblica o esercitata da abili imprenditori e tecnici inglesi, come Thomas Richard Guppy e John Pattison. Va detto, tuttavia, che la lavorazione dei metalli era più o meno praticata in tutto il Mezzogiorno, dove esistevano nuclei di piccole officine e ferriere, addette, per lo più, alla produzione di meccanica varia e di utensili correnti. Non trascurabile la lavorazione del vetro e del cristallo, nonché la produzione di carta.

Con il passare degli anni, in particolare, nel penultimo decennio del secolo, la situazione divenne disastrosa.
Crollarono diversi istituti di credito e l'industria si trovò in grandi difficoltà. La grande industria metalmeccanica soffriva di crisi produttive crescenti con l'affievolirsi della politica espansionistica di Crispi; i nuclei di industria tessile e della carta non avevano esteso i propri traffici, occupando un numero di addetti non superiore a quello del periodo borbonico. Anche per quel che riguarda le società per azioni, il divario fra Nord e Sud si allargava sempre di più. Nel 1865 l'87,1% del capitale delle società per azioni era concentrato nel Nord - Ovest, il 2,2% nel Nord - Est, il 6,5% nel Centro ed il 4,2% nel Sud.

* Credo non ci sia conclusione migliore che riportare il pensiero di uno storico del "nostro Mezzogiorno", come amava definirsi, di uno storico della crisi del Meridione, questa crisi di oggi e di ieri, che viene comunemente definita "questione meridionale", Gabriele De Rosa: <<>>.
De Rosa immaginava il corso di un'altra storia per il Sud, una storia che non fu: <>>. Ma questa storia ideale e sognata non fu e, in luogo di essa, invece, fu << una storia irreale e violenta, dettata ed imposta dalle leggi del mercato più forte, dalle leggi del protezionismo di ferro, usuraio e sfruttatore, applicato con la prassi del più sconcio trasformismo clientelare, a servizio di uno sviluppo capitalistico pressoché uniforme al Nord, a singhiozzo alle isole ed al Sud (3).


STEFANIA MAFFEO

NOTE
1 - Il plebiscito sarà effettuato il 21 ottobre 1861, cui seguì l'entrata di Vittorio Emanuele il 7 novembre.
2 - La notizia è stata attinta da un sito: www.lastoriadinapoli.it.
3 - I brani di De Rosa sono tratti da un saggio di Bruno Gatta pubblicato sulla rivista bimestrale promossa dall'Assessorato per il Turismo della Regione Campania, a cura degli Enti Provinciali per il Turismo di Avellino, Benevento, Caserta, Napoli e Salerno, "Civiltà della Campania", N°.1, dicembre 1974, in occasione del conferimento del "Premio Padula", assegnato all'antologia storica dei meridionalisti di due secoli, pubblicata dall'editore napoletano Guida e curata da Gabriele De Rosa ed Antonio Cestaro, dal titolo "Territorio e società nella storia del Mezzogiorno".

fonte:http://cronologia.leonardo.it/storia/biografie/garibal5.htm

venerdì 10 ottobre 2008

emanuele filiberto a San Luca e Bovalino

Il "principino" Emanuele Filiberto a San Luca parla dei "valori" della Costituzione. 260 milioni di euro che ha chiesto al Governo per l'esilio e dimentica l'arresto del vice-presidente della sua fondazione e sopratutto dimentica chi ha messo il sud a ferro e fuco per decenni: i suoi antenati


Quel gran bravo ragazzio di Emanuele Filiberto di Savoia ha
concluso la sua due giorni in provincia di Reggio Calabria. Venerdì 3 a Bovalino per il ventennale della fondazione del Gruppo Volontari del Soccorso e la mattina di sabato a San Luca per la presentazione de “Il Grande Libro della Costituzione Italiana”.
Tutti entusiasti per la visita del rampollo della ex Famiglia Reale della quale ricordiamo la vigliaccherìa, prima, e la codardia, dopo, nella gestione dell’ascesa (e crollo) di Mussolini al potere.
Certo, colpe non sue. Come non sono sue le colpe per le “allegre” frequentazioni del padre, il “Re” (delle marchette), a Campione d’Italia.
Tutti a dirgli quanto è bravo, quanto è bello, quanto è composto, quando è umile.
Dettagli essenziali che non sfuggono ai cronisti locali:
(…)La cerimonia svoltasi venerdì sera è stata veloce ed informale, con il principe che, a suo agio, si aggirava tra gli ospiti. E’ stata proprio l’umiltà e disponibilità, dimostrata dal Savoia insieme al suo senso di adattamento, l’argomento di discussione tra i presenti.
Il rampollo infatti al momento del buffet si è rispettosamente messo in fila per servirsi da solo, cosi come ogni altro invitato.(…)
CalabriaOra - Annalisa Costanzo
Proprio per ricordare i vecchi tempi i bambini di San Luca gli hanno anche dato del “Voi”:
«La vostra illustre presenza, il fatto che venite da lontano per darci testimonianza della vostra amicizia e solidarietà è un fatto importante che da forza alla nostra speranza » dice Angela una bambina di San Luca.
«Dovete sapere che potete sempre contare su di me – risponde Emanuele Filiberto - come un vostro fratello maggiore».
Il vice-sindaco, Francesco Giampaolo, gli ha confessato di essere contento della sua visista ma che “a San Luca servono strutture sportive per i nostri ragazzi”.
Lui si è detto «felice di incontrare i giovani di San Luca per fargli capire che non sono soli. Io non ho le chiavi dello stato, ma faremo delle cose insieme».
Cosa? E’ forse troppo presto per saperlo.
Continuando a leggere CalabriaOra ci accorgiamo che qualcuno si insospettisce della sua affabilità. Si sà, le “fimmine” di San Luca non sono tipini che si fanno prendere per i fondelli. No no no.
«Una persona umile» dichiara una ragazza dopo essersi fatta la foto con il reale.
A lei fa eco una donna più anziana: «Mi ha fatto una buona impressione, non me l’aspettavo così disponibile, ma sarà vero? O lo fa per attirare consensi per un’eventuale candidatura politica?».
A questo punto non si può non ricordare che - dopo avere promesso (e poi smentito, fa spesso così) - che non si sarebbe interessato di politica, rispettando appunto le motivazioni alla base del suo divieto di rientro in Italia, alle scorse politiche si è candidato in una delle circoscrizioni estere alla Camera dei Deputati.
Ha raccolto, nella circoscrizione “Europa”, lo 0,4% (zero virgola quattro!) dei consensi.
Si era presentato con la lista “Valori e Futuro con Emanuele Filibero” che prendeva il nome appunto dalla fondazione di cui è presidente.
E della quale fondazione, con il ruolo di vice-presidente, faceva parte Mariano Turrisi.
Uno che negli Stati Uniti, scrive il Sole 24 Ore
è stato oggetto di diverse indagini dall’anno 1984, per riciclaggio, traffico di droga, richieste estorsive di ampliamento dei crediti, uso di documenti e valuta contraffatti, di assegni scoperti e truffe, ma sempre senza o quasi alcun risultato… (In Italia) risulta avere pregiudizi per reati contro il patrimonio (1994) ed essere stato condannato per reati contro la famiglia (1987). Da archivi dell’Fbi… risulta essere stato tratto in arresto più volte negli Usa.
Il 22 ottobre del 2007 viene arrestato con l’accusa di fare parte di una associazione mafiosa legata al clan italo-canadese dei Rizzuto che con una società (Made in Italy group), con sede a pochi passi da Palazzo Chigi, avrebbe riciclato enormi somme di denaro.
Valori e futuro, insomma.
Ne ha parlato, il Principe. Eccome.
«Oggi è l’occasione per sottolineare che in un territorio difficile come l’Aspromonte, con problematiche complesse di ardua soluzione, è necessario rafforzare i valori fondanti del popolo italiano che sono imprescindibili nella crescita di tutti voi ragazzi.»
Siete voi gli autori del vostro futuro e del futuro dei vostri figli e non potete mai dimenticare parole centrali nell’essere umano come quelle su cui si fonda la nostra Costituzione e il nostro popolo italiano: il rispetto, la famiglia, l’amore per il prossimo, la solidarietà, l’onestà e il lavoro».
Gazzetta del Sud - Antonio Strangio
Ed Emanuele Filiberto di Savoia, della Costituzione, conosce bene appunto i “valori”.
E lui, infatti, dopo avere ottenuto l’ingresso nel territorio italiano nel 2002 con una legge costituzionale che ha modificato gli effetti della XII disposizione transitoria, ad avere chiesto un anno fa al Governo Italiano la somma di 260 milioni di euro a titolo di risarcimento dei danni morali subiti a causa dell’esilio e la restituzione dei beni confiscati a Casa Savoia.
Peccato che, invece che additarlo a modello per i bambini sanluchesi, nessuno gli abbia ricordato alcune cosette.


antonino monteleone da http://oknotizie.alice.it/

martedì 5 agosto 2008

Il busto di Ferdinando II di Borbone nel palazzo municipale di Locri

Locri e Gerace unite nella "riscoperta e nel recupero della propria memoria storica nonché delle tradizioni storiche-culturali-economiche della propria terra". Questo il senso della cerimonia di presentazione del Busto di Ferdinando II° di Borbone, (busto in ghisa realizzato nel 1854 nelle Reali fonderie di Mongiana e ritrovato nel marzo del 2003 a Locri dalle maestranze dell'impresa Varacalli durante i lavori di ristrutturazione dello storico Palazzo della città), sottolineato dagli interventi dei sindaci di Locri e Gerace, rispettivamente Carmine Barbaro e Salvatore Galluzzo. All'appuntamento, organizzato dalla città di Locri con l'adesione di quella di Gerace e col patrocinio della Regione e del Sacro Ordine Militare Costantiniano di San Giorgio e la partecipazione dell'associazione culturale "Due Sicilie" e del Circolo di Studi storici "Le Calabrie", tenutosi giovedì sera nei giardini di Palazzo Capogreco, c'erano anche i parlamentari Bova, Meduri e Crinò, numerosi sindaci della Locride, personalità del mondo della cultura. Ad illustrare le grandi doti di statista di Ferdinando II°, Nicola Zitara, presidente della "Due Sicilie", Filippo Racco, presidente de "Le Calabrie", la cattedratica dell'Università "Federico II°" di Napoli, Mariolina Spadaro, l'ispettore archivistico onorario Vincenzo Cataldo, l'architetto della Scuola di Alta formazione in Architettura e Archeologia dell'Università di Reggio, Vincenzo De Nittis, e l'ispettore onorario delle Belle Arti, Maria Carmela Monteleone. "A 150 anni dalla fine del regno delle Due Sicilie - dice Zitara - il Re Burlone (anche cos' è stato definito Ferdinando II°), decide di uscire dalla sepoltura e rifarsi vivo (il busto sarà collocato nel salone dello storico Palazzo municipale in via di rifacimento), nel suo ex regno quasi a voler ammonire tutti a fare tesoro del passato, a riscoprire le nostre tradizioni e l'orgoglio di gente positiva, laboriosa, tenace, che ha fatto grande la storia di queste contrade e che può indicare alle generazioni future la via del riscatto, della civiltà, del progresso".

da "Il Quotidiano della Calabria", 7 agosto 2004

venerdì 1 agosto 2008

Capo d’Orlando Messina: il Sindaco “piccona” la targa di Garibaldi

Palermo, 31 lug. - (Adnkronos) - Il sindaco di Capo d'Orlando, in provincia di Messina, vuole riscrivere la storia partendo dalle piazze. Ieri Enzo Sindoni ha preso a picconate la targa di piazza Giuseppe Garibaldi, maledicendo l'eroe risorgimentale come "un feroce assassino al servizio di massoneria e servizi inglesi". Presa a martellate la vecchia targa in memoria dell'eroe in camicia rossa, Sindoni ha rinominato la piazza 'IV luglio'. "Riferimento ermetico - scrive il 'Corriere' - a un evento dimenticato, una battaglia navale del 1299 con seimila morti. Sgusciato da varie peripezie giudiziarie, Sindoni, eletto con lista civica, assessori di diverse estrazioni, si infuria con chi lo accusa di iniziative folkloristiche e non teme le reazioni dei comitati pro-Garibaldi appena nati, fiero di incoraggiamenti autorevoli che arrivano persino dalla Regione".

Da Palermo, lo storico italiano Francesco Renda invita tutti "a studiare la storia, anche a rivederla, a riscriverla, non a frantumare targhe" e propone al governatore Raffaele Lombardo di evitare "manifestazioni inutilmente offensive. Capisco che le sue origini - puntualizza Renda - non stanno nel Risorgimento, ma nel separatismo. Bene, studiamolo, ristudiamolo. Improvvisando - chiosa lo storico - c'e' solo presunzione e ignoranza".

''Ma forse a Capo d'Orlando - scrive il 'Corriere della sera - preferiscono agganciarsi a un altro professore di Storia moderna, Daniele Tranchida, cuore a destra, studenti all'universita' di Messina: 'Studiamo da tanti anni e infatti ormai sappiamo che fu strumento almeno inconsapevole di disegni antimeridionali". La piazza della cittadina in provincia di Messina e' stata "strappata a Garibaldi e ridotta a un numero, il 4 luglio - termina il 'Corriere' - che pero', per ironia del destino coincide con la sua data di nascita. Come fosse lo sberleffo di 'don Peppino'".

mercoledì 30 aprile 2008

SUD LA NUOVA EMIGRAZIONE

Ogni anno 270 mila persone vanno al Nord Lavorano, ma le famiglie devono aiutarli


Non c’è stato partito che in campagna elettorale non abbia promesso il rilancio del Mezzogiorno e adesso perfino la Lega, con Roberto Calderoli, dice che «la questione settentrionale non può essere risolta se non si affronta la questione meridionale».
È successo anche che Confindustria, Cgil, Cisl e Uil hanno firmato un nuovo documento comune per il Sud. E, ovviamente, non sono mancati gli appelli degli economisti ad affrontare l’annoso problema delle «due Italie». Ma adesso, dopo il voto, chi si ricorderà di tutto questo?
Le persone in carne e ossa, intanto, cercano in prima persona una soluzione. Che spesso è la nuova migrazione da Sud a Nord. Che, ovvio, non è più quella degli anni Cinquanta e Sessanta, dei contadini poveri e ignoranti che con la valigia di cartone si trasferivano nel triangolo industriale per lavorare in fabbrica. Ma che, se è molto diversa qualitativamente, tocca però le stesse vette numeriche di allora. Ogni anno, infatti, si spostano dalle regioni meridionali verso quelle del Centro-Nord circa 270 mila persone: 120 mila in maniera permanente, 150 mila per uno o più mesi, dice l'istituto di ricerca Svimez. Un dato vicino a quello dei primi anni Sessanta, quando a trasferirsi al Nord erano 295 mila persone l’anno.
Una città intera che si spostaParlare di 270 mila uomini e donne che ogni anno vanno da Sud a Nord per lavorare o per studiare significa immaginare una città come Caltanissetta che si sposta tutta intera per trovare un futuro. Anche i contorni economici del fenomeno sono profondamente diversi da quelli del dopoguerra. Allora le rimesse degli emigranti generavano un flusso di risorse discendente, dalle regioni settentrionali a quelle del Mezzogiorno: servivano a mantenere le mogli o i genitori anziani rimasti al paese e magari a mandare avanti i lavori per costruire o ampliare la casa.
Oggi, al contrario, i soldi risalgono la Penisola, per sostenere gli studenti meridionali nelle Università del Nord o i lavoratori precari che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese, ma che tirano avanti con l’aiuto delle famiglie d’origine (comprese le pensioni dei nonni) con l’obiettivo di raggiungere poi il contratto a tempo indeterminato.
Il trend consolidatoAl ministero dello Sviluppo Economico, il viceministro Sergio D’Antoni ha stimato con i suoi tecnici che si arriva a circa 10 miliardi di euro che per tutti questi motivi (compreso il mancato sviluppo nel Sud) «emigrano» ogni anno dal Mezzogiorno al Nord. Il che non è esattamente il massimo per un Paese che dovrebbe ridurre le distanze tra le due Italie.
Spiega Delio Miotti (Svimez) che da tempo studia la nuova migrazione: «Negli ultimi anni si sta consolidando un trend: più di 120 mila persone all’anno si spostano dal Sud nelle regioni del Centro-Nord cambiando residenza. Sono in gran parte giovani, tra i 20 e i 45 anni, diplomati, ma uno su cinque è laureato. A questi bisogna aggiungere altri 150 mila che si trasferiscono al Nord come pendolari di lungo periodo, cioè per almeno un mese. Sono studenti o lavoratori temporanei che non si possono trasferire stabilmente perché non hanno un reddito sufficiente per mantenersi e per portare la loro famiglia nelle regioni settentrionali, dove la vita è più cara ».
Ma se è così, perché questa emigrazione non fa più notizia? «Perché chi emigra —risponde D’Antoni— non ha problemi d’integrazione con la realtà del Nord: spesso è un giovane che usa Internet e parla inglese come i suoi coetanei settentrionali. Non diventa quindi un caso sociale, come negli anni Cinquanta.
Quella di adesso è perciò un’emigrazione invisibile, silenziosa ». Eppure ci sono comuni che lentamente si vanno svuotando delle energie migliori. Quelli a più alto tasso migratorio (intorno all’8 per mille annuo) sono in Calabria: Cirò, Petilia Policastro, Dinami, Rocca Imperiale. La zona di Cirò, in provincia di Crotone, tra il ’91 e il 2006 ha visto un calo di popolazione del 34% circa.
I giovani studentiSe ne vanno parecchi giovani per studiare nelle Università del Centro- Nord: 151mila nell’anno accademico 2005-2006. Più di 36 mila sono partiti dalla Puglia, 25 mila dalla Calabria, 24 mila dalla Sicilia, 23 mila dalla Campania. Una parte di questi non torneranno più indietro. L’agenzia governativa Italia Lavoro ha calcolato che a fronte di 67 mila neo-laureati del Sud previsti in ingresso nel mercato del lavoro nel 2007, le imprese industriali e dei servizi del Mezzogiorno hanno espresso, nello stesso anno, una domanda di laureati pari a 12.390 unità, il 16,4% del totale. Anche se si sommano i neolaureati richiesti dalla pubblica amministrazione e dal lavoro autonomo, si può stimare che circa la metà dei giovani che si laureano nelle regioni meridionali è di troppo rispetto alla domanda locale. Nessuna meraviglia, conclude quindi Italia Lavoro, se questi giovani cercano lavoro altrove e se il 60% dei meridionali che si laurea al Nord, vi rimane anche dopo la laurea. Per necessità, più che per scelta.
Gli incentiviOra non ci sarebbe niente di male se questo fenomeno fosse indice di una società mobile, all’americana. Il fatto è che in Italia questo movimento è a senso unico, con un progressivo impoverimento del Mezzogiorno. Per combattere questo trend i vari governi hanno provato a incentivare fiscalmente le assunzioni nel Sud. Nell’ultima Finanziaria è stato inserito anche un bonus di 400 euro al mese per sei mesi per i neolaureati che svolgono stage nelle imprese del Sud che, se poi li assumono, ricevono un contributo di 3 mila euro. Il meccanismo sta funzionando, afferma D’Antoni. Ma non è solo un problema di incentivi. Paolo Sylos Labini, il grande economista morto nel 2005, che amava il Mezzogiorno, ripeteva che la questione meridionale prima ancora che economica è una questione civile. In altri termini, non è solo la domanda di lavoro qualificato che deve aumentare, ma devono migliorare anche le condizioni generali di vivibilità, dal funzionamento della pubblica amministrazione al controllo del territorio da parte dello Stato contro la criminalità. Altrimenti, in silenzio, i migliori se ne vanno.



Enrico Marro23 aprile 2008 WWW.CORRIERE.IT

martedì 29 aprile 2008

Messina, cent'anni nelle baracche

Messina, cent'anni nelle baracche: nel 1909 dopo i massacri effettuati dai Savoia è il terremonto ad infierire sulla città radendola completamente al suolo. Sia lo stato unitario prima che la repubblica dopo si sono "occupati" di "riparere" i danni subiti dalla città. Oggi dopo 150 anni i messinesi hanno le stesse identiche baracche che i savoia costruirono per loro, qualcuno, li nello stretto oggi rimpiange la gestione di Ferdinando II di Borbone qundo la città siciliana era tra le piu belle d'europa.


Esattamente un secolo fa, il sisma devastava la città dello stretto. Le capanne dei terremotati - 3.336 - sono ancora lì: popolate da gente che lavora, paga spazzatura e affitto, e deve ammazzare i topi a cucchiaiate. Senza più la speranza che questa vita «provvisoria» finisca
Il ponte di Messina, di questo pezzo di Messina che sconcia gli occhi e offende la ragione, è una passerella in legno di tre metri e poco più: ingegneria della povertà per superare uno stretto di liquami, un rigagnolo fognario a cielo aperto di scarichi e urina, che divide due blocchi di baracche. Campata unica d’assi marce, è stato tirato su da chi ha il coraggio e la necessità di campare qui dentro, in case che case non sono: eternit a far da tegola e, dentro, pareti morsicate dalle crepe e soffitti tinteggiati a muffa. Favelas del quartiere Giostra. Neanche la peggiore nella città che delle baracche ha fatto il monumento alla sua trasandatezza, i suoi cent’anni di baracchitudine: da quando, all’alba del 28 dicembre 1908, un terremoto devastante – magnitudine 7,2 della scala Richter – si portò via ogni cosa e quasi ogni casa: un bel po’ della Messina (e della Reggio Calabra) di allora e pure la vita di 80mila persone. Perché queste fatiscenze di Giostra – e quelle di Camaro o di Fondo Fucile – non compongono un villaggio tirato su l’altro giorno da qualche famiglia di rom.
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-->Non sono le nuove emergenze dell’emigrazione, ma spettrali residenze italiane: la terza generazione delle baracche, le nipotine delle prime capanne offerte e montate da svedesi e americani, svizzeri e prussiani, all’indomani del terremoto, quando Messina diventò tutta di legno – compreso teatro, municipio e duomo – prima che il Fascismo costruisse baracche in muratura (le madri di quelle di Giostra), e la Repubblica, dopo i bombardamenti dell’ultima Guerra, inventasse queste «casette ultrapopolari a uso provvisorio», con vista sugli scarichi e affaccio su strade-cunicoli che sono tavolozza di ogni puzza, abitate da messinesi che lavorano (quando di lavoro ce n’è); che votano (spesso in cambio di promesse mai mantenute); che pagano la spazzatura (che li circonda), la corrente elettrica (ragnatele di fili volanti, stramate dai corti circuiti) e pure l’acqua del rubinetto (ma è gratis quella che piove dentro gli alloggi).
Generazioni di baracche e generazioni di messinesi che lì dentro ci hanno vissuto e ancora ci vivono, in più di tremila, nell’anno domini 2008, a cent’anni dal sisma: i quartieri dell’Annunziata, del Fondo De Paquale o di Giostra, come le stratificazioni geologiche della storia d’Italia, della sua classe politica siciliana e no, del suo squallore. Ché le baracche di Messina sono, oggi, una lezione di architettura da favelas a cielo aperto, dove l’infiltrazione mafiosa e quella dai soffitti, che si aprono su squarci di cielo, sono tutt’uno. E forse il solo luogo, di questo Paese, dove persino i luoghi comuni si schiodano dalla realtà come le assi di Concetta Albano, le mura della sua baracca: qui non puoi azzardarti a pronunciare una frase da niente, un modo di dire come sarà passato un secolo, senza che ti si torca lo stomaco mentre cerchi di manda giù alla meglio un groppo di indignazione e compassione.
Sembra una trincea, la baracca della signora, il fronte di una catastrofe umana: una sola stanza; un cesso nascosto da una porta di cartone che nulla può contro l’odore; il lavandino di fuori, oltre un cortile di cemento dove passeggiano i topi: «Ieri sera ne ho ammazzato uno dandogli una cucchiaiata in testa». Col suo unico cucchiaio. Ha ottant’anni la signora Concetta e in quella baracca, una di quelle del 1909, finanziata con i trenta milioni di lire sstanziati dal primo ministro Giovanni Giolitti, ci ha passato tutta la vita. «Prima sono morti i genitori, poi mio fratello se n’è andato e non l’ho più visto. Lavoravo come donna delle pulizie nelle famiglie. Ero brava e veloce. E aspettavo che qualcuno mi desse finalmente una casa. Me l’hanno promessa tante volte, ma io sono sempre qui».
Parla a fatica e cammina a piedi nudi tra i topi perché le scarpe sono ancora più insopportabili per i suoi piedi gonfi. Però si assesta di continuo i capelli grigi e appiccicosi e alla fine, tra due lacrime da sfinimento e una risata esagerata, di quelle per non piangere, apre uno dei sacchetti di plastica che le fanno da armadi e mostra una foto di quando era giovane e bella. E la baracca di legno, come il futuro, non faceva ancora paura. Siamo all’Annunziata, quartiere nord con vista sullo Stretto. Appena sopra, sul limitare della vergogna, ecco i nuovi palazzoni dell’Università e poco più in basso la metropolitana di terra conosce il capolinea, giusto in faccia al nuovo museo della città dove sono esposti Caravaggio e Antonello da Messina. E quella di Concetta Albano e della sua baracca, tirata su mentre a Palermo la mafia uccideva Joe Petrosino, sembra la perfetta metafora del «terremoto infinito» – delle false promesse, degli aiuti a fondo sperduto, del provvisorio che diventa per sempre – e di una città, regione, nazione sfinite. Solo che la vita di Concetta, dentro al suo tugurio – i pasti assicurati dalle suore del convento vicino, l’emergenza sanitaria dall’assistenza sociale – non è una metafora. E nemmeno quella di Orazio Giuseppe Andronaco e degli altri invisibili delle baracche, uomini e donne dimenticati da ogni lista di assegnazione ma segnati da un’età che non è la loro: i visi che non corrispondono all’anagrafe, invecchiati prima del tempo, prosciugati da alloggiamenti insalubri e rugati dall’umidità.
Dice Orazio Giuseppe, due blocchi di baracche più in là: «Ho 73 anni, raccoglievo ferro vecchio, e qui dentro ho tirato su la mia famiglia: mia moglie, che qualche anno fa è morta, e i nostri dieci figli». E qui dentro sono due stanze, una invasa di barattoli e stracci e robivecchi e l’altra rimpicciolita da un monumentale matrimoniale: «Ci dormivamo tutti insieme, uno sopra l’altro, come animali». E arredata con sei ventilatori e la bombola per l’ossigeno: «D’estate si muore dal caldo». E non solo per il caldo: soffitto opprimente con tettoia d’amianto. «E dire che a me basterebbe una mini-casa se me l’assegnassero. Anche se, per fortuna, due dei miei figli, guardi un po’ qui dietro, mi hanno costruito un bagno decente». Chissà cosa doveva essere prima, quando la famiglia cominciò ad allargarsi, nel 1951. «Ha visto? Case per cani, non per umani», si sfoga Eleonora, da mezzo secolo dentro alloggi di sfortuna che sembrano scatole da scarpe che hanno preso l’acqua.
È come se fossero appena passati, il terremoto e la guerra, in questi angoli di Messina di cui la città si vergogna. E non ama parlarne, salvo mandare a dire, quando c’è da votare, che presto ognuno avrà la sua casa. Certo, anche Domenico, che ha 20 anni ma non un lavoro, e la sorellina che fa la seconda elementare e adora «High School Musical e Zac Efron ma vorrei saper cantare come Gabrielle». Non puoi accettare che possa vivere lì, a un metro e mezzo dalla casa di Oronzo, dirimpettaia di baracca, con la madre Gaetana, 42 anni, che adesso va «a servizio», dopo due anni al Nord, «in un pastificio di Mantova, con contratto a termine, finché c’è stato lavoro». Eppure anche Gaetana, quando aveva l’età di sua figlia – come la signora Concetta negli anni Trenta – era sicura di andarsene un giorno o l’altro, convinta che la baracca non sarebbe stata per sempre la sua vita.
18 ANNI FA: L’ULTIMA LEGGE PER IL RISANAMENTO Sì, certo. C’è una legge regionale del luglio ‘90, l’ultima in ordine di tempo, che prevede il risanamento di Messina: una legge speciale dove si annuncia lo sbaraccamento e la riqualificazione urbana e sociale, mettendo a disposizione, ai tempi, 500 miliardi di lire. Peccato che ne siano stati usati solo 150, gli altri perduti chissà come e finiti chissà dove. I piani particolareggiati sono stati approvati solo nel 2002 (e nel 2004 la regione Sicilia ha stanziato altri 70 milioni di euro) ma gli espropri, le demolizioni e le nuove costruzioni hanno il freno a mano tirato dei ritardi e delle burocrazie, tanto che – secondo un censimento di Legambiente – sono ancora 3336 i nuclei baraccati presenti in città. Così, alla fine, per disperazione certe famiglie ormai fanno le terremotate a vita. Ottenuta una nuova casa popolare, lasciano ai figli la baracca nelle favelas, in un’interminabile catena-di-sant’antonio della povertà: ma è ’unica eredità consentita a chi – nel ’61, i giorni del boom, erano ancora 30mila i baraccati di Messina – ha vissuto dove è indegno vivere e solo quel tesoro ha da offrire.
E se accenni al Ponte sullo Stretto si mettono a ridere e indicano il loro, con vista sul liquame. Fondo De Pasquale e Fondo Basile, Giostra e Annunziata, Camaro e Fondo Saccà. Ecco le colline dove riposano le baracche, le spoonriver dei vivi-malgrado-tutto con il loro catalogo di storie come quella della signora Lilla di Giostra, in baracca dal ’27, una di quelle tirate su dal Fascismo, e ancora lì ottant’anni dopo, anche lei in compagnia di insetti e topi, il tetto che sta su per miracolo. O quella di Maria T. di Camaro, 70 anni e stesso alloggiamento, che lo scorso autunno è andata a stare qualche giorno dal figlio, a Parma, e al ritorno ha trovato la baracca occupata, tanto che, minacciata dai «nuovi terremotati», ha dovuto rivolgersi all’avvocato, per iniziare un’altra guerra tra poveri; o quella della signora Letteria di Villa Lina, che nel 2006, a 92 anni – sì, insomma, una quasi coetanea del terremoto –, dopo aver cresciuto quattro figlie in una stanza ed essere diventata nonna e bisnonna, ha fatto in tempo a vedersi assegnata una vera casa.
Oppure quella di Francesco Assenzio, classe 1911, che per cinquant’anni, ogni anno, fece domanda di una casa – senza successo, naturalmente – fino a quando se ne andò per sempre nel ’98, quattro anni prima di diventare trisnonno di un altro Francesco Assenzio, nato pure lui tra il legno, le lamiere e il provvisorio infinito. Commento di Maria A., 55 anni di Giostra, un’unica stanza divisa in tre, un vecchio televisore per stanza: «Non ce n’è di travaglio qui e adesso il Comune ci chiede il fitto arretrato per queste baracche: 3500 euro. E io dove li trovo?». Epigrafe di un’altra Maria, 43 anni, vicina di casa: «Ha visto quanto è largo il vicolo? Se si ingrassa non si passa, ma non c’è rischio. Ma non ci passa neppure la cassa da morto quando si va al cimitero. E di solito arriva prima quello dell’assegnazione. Non c’è da sperare qui»
Qui, dove nell’inverno del 1909, a poco più di un mese dal terremoto, la città era sì pura maceria, ma dava anche l’idea del cantiere, tanto che Luigi Barzini, sul Corriere, regalò da quaggiù – era il 4 febbraio 1909 – la speranza che «un grande avvenire si preparerà per Messina». Ma durò poco, quando gli aiuti, giunti da mezzo mondo, se ne tornarono a casa, l’illusione s’imbarcò con loro: già il 9 maggio la baracca – una parola durata un secolo e ancora in piedi nei resoconti – prendeva possesso delle cronache, ché «per l’assegnazione delle baracche, contro soprusi e favoritismi, la polizia sparò contro la folla lasciando sul terreno 5 morti». Da allora, sul terreno, Messina ha lasciato le baracche: sopravvissute al re e al fascismo, a due guerre mondiali e pure ai 61 governi della Repubblica. Monumenti (con) viventi a un secolo d’Italia.

Cesare Fiumi15 aprile 2008 (ultima modifica: 16 aprile 2008) www.corriere.it

sabato 26 aprile 2008

MARCELLO DELL'UTRI E LA 'NDRANGHETA

La ‘ndrangheta traffica in voti - Dell’Utri: ”Non ho avvisi di garanzia. Ho solo parlato con una persona che voleva occuparsi del voto degli italiani all’estero” REGGIO CALABRIA - E’ Marcello Dell’Utri il parlamentare coinvolto nell’inchiesta sull’intervento della ‘ndrangheta sul voto degli italiani all’estero: “Non ho ricevuto alcun avviso di garanzia” ha detto all’Ansa. Dell’inchiesta “ho letto sui giornali”. Poi ha spiegato: “Non conosco personalmente Aldo Micchichè ma l’ho sentito per telefono” e l’ho messo in contatto con Barbara Contini perché “lui si è offerto di occuparsi dei voti degli italiani all’estero”. Barbara Contini è l’ex governatore di Nassiriya, candidata per il Pdl al Senato in Campania. Dell’Utri respinge qualsiasi ipotesi di coinvolgimento in vicende di presunti brogli: “Stiamo scherzando? Stiamo dando i numeri! Se vogliono sollevare un polverone elettorale, io questo putroppo non lo posso impedire. Ma - ripete - stiamo dando i numeri”. Sul merito, Dell’Utri aggiunge: “Con Micciché ero entrato in contatto qualche mese fa per ragioni di energia. Lui in Venezuela si occupa di forniture di petrolio. Io ero in contatto con una società russa che ha sede anche in Italia, per cui - spiega Dell’Utri - conoscendo questi russi ho fatto da tramite”. “Questo signore si è interessato di organizzare il voto degli italiani all’estero come si sono attivate tutte le persone di tutti i partiti e di tutte le latitudini. Quindi non vedo dove sia la materia del contendere”. Miccichè - prosegue il senatore di Forza Italia - “non lo conosco fisicamente. E’ un personaggio peraltro notissimo in Italia. E’ stato amministratore della Dc negli anni ‘60-’70. Credo che a suo tempo abbia avuto delle vicende giudiziare legate a Tangentopoli. Per il resto è un cittadino che vive da molti anni in Venezuela, con famiglia. Non vedo cosa ci sia di strano”. La sconcertante ipotesi dell’intervento sulle elezioni delle cosche calabresi sulla quale sta lavorando la Dda di Reggio Calabria, nasce da un’intercettazione nella quale si fa esplicito riferimento alla possibilità di “controllare” cinquantamila voti, in cambio di una contropartita in denaro di 200 mila euro. L’inchiesta di Reggio. I magistrati reggini avrebbero ascoltato una conversazione tra esponenti della cosca Piromalli ed il parlamentare siciliano candidato al Parlamento Italiano. Nell’inchiesta è coinvolto un uomo d’affari, Aldo Micciché, da tempo residente in America Latina. Il tentativo d’inquinamento del voto avrebbe mirato a condizionare l’esito della consultazione elettorale facendo risultare come votate circa 50mila schede bianche. Un meccanismo piuttosto semplice. Corrompendo le persone giuste al posto giusto, infatti, i clan avevano intenzione di apporre sulla scheda un segno di preferenza proprio a vantaggio del partito dell’esponente politico siciliano. Un lavoro “pulito” quindi, che non avrebbe lasciato tracce grazie a “manine amiche” che avrebbero barrato le schede di ritorno. Un piano che evidentemente avrebbe potuto falsare l’esito elettorale. Pochi i dettagli sull’inchiesta. E’ certo che gli investigatori stavano controllando alcuni telefoni sulle tracce dei soldi dei Piromalli, per cercare di capire come la cosca riuscisse a riciclare i milioni di euro del traffico di stupefacenti. Da qui la scoperta. Micciché, da tempo residente in Venezuela, parla con il politico definito “un pezzo grosso”. Oggetto del colloquio è la mobilitazione dei consoli onorari, che avrebbero avuto un ruolo determinante nel controllo del voto. La notizia è stata confermata dal procuratore della Repubblica facente funzioni, Francesco Scuderi, che non ha inteso però fornire ulteriori particolari. “Il momento, visto che siamo ad appena due giorni dal voto - ha detto Scuderi - è delicatissimo, anche perché negli articoli riportati sui giornali ci sono molti dettagli che avrebbero dovuto rimanere riservati, e sarebbe irresponsabile da parte nostra in questo momento rivelare ulteriori particolari”. “Dopo il voto - ha aggiunto Scuderi - potremo fornire qualche notizia in più. Al momento non è il caso di dire alcunché”. Nei giorni scorsi lo stesso Scuderi ed il pm della Dda Roberto Di Palma, titolare dell’inchiesta, avevano incontrato il ministro dell’Interno Giuliano Amato per informarlo sulle risultanze dell’inchiesta. Come si ricorderà, già alle scorse elezioni furono segnalati alcuni casi di brogli legati proprio alle schede del voto estero. Amato: “Il Viminale sarà una casa di vetro”. Sulla vicenda è intervenuto il ministro dell’Interno Giuliano Amato. “Nei giorni scorsi ho ricevuto una comunicazione da parte della Procura di Reggio Calabria su tentativo di broglio per il voto all’estero”. “Si tratta di materia coperta dal segreto istruttorio. Dopo aver ricevuto la notizia ho subito attivato il ministero degli Esteri che ha provveduto con particolare attenzione a garantire che quelle schede non vengano mai perse di vista”. Sapere, ha aggiunto, “che ci sono persone che scambiano denaro per il voto non è mai una soddisfazione, ma le misure adottate dal ministero degli Esteri possono aver prevenuto il danno”. Il ministero ha allertato i consolati. Amato ne ha approfittato per dire che durante le operazioni di voto “il Viminale sarà una casa di vetro”. “A questo proposito ho invitato gli ex ministri come Maroni, Scajola, Pisanu ed Enzo Bianco.

Giuseppe Baldessarro repubblica.it


Voto di scambio all'estero
Dell'Utri nelle intercettazioni Indagine su 50 mila schede, coinvolti uomini della 'ndrangheta Le intercettazioni: «Si tapperanno gli occhi quando barreremo le schede bianche con il simbolo Pdl»



REGGIO CALABRIA — Stando all'inchiesta della procura di Reggio Calabria sui possibili brogli elettorali commissionati all'estero, spunta il nome del senatore di Forza Italia Marcello Dell'Utri. Dalle intercettazioni telefoniche il faccendiere-bancarottiere Aldo Miccichè, calabrese di Maropati, avrebbe affidato il compito di sostenere la lista Berlusconi alla cosca Piromalli di Gioia Tauro, il casato di 'ndrangheta più potente in Calabria. Miccichè, intanto, dal Venezuela dove si è rifugiato per sottrarsi alla condanna definitiva per bancarotta fraudolenta e millantato credito, avrebbe messo a disposizione del senatore di Forza Italia i suoi legami con il cartello di 'ndrangheta sudamericana per favorire il controllo del voto degli italiani all'estero, mobilitando i consoli onorari. Nel dossier di circa 430 pagine consegnato al ministro dell'Interno Amato dal procuratore distrettuale di Reggio Calabria Francesco Scuderi e dal pm Roberto Di Palma, si capisce come le schede bianche, circa 50 mila, sarebbero diventate voto utile per il partito di Berlusconi. Miccichè al telefono con Dell'Utri si dice convinto che l'operazione andrà in porto. «Basterà pagare qualche addetto ai lavori — dice rivolgendosi a Del-l'Utri, chiamandolo per nome —. I responsabili delle votazioni si tapperanno entrambi gli occhi quando qualcuno dei nostri si preoccuperà di recuperare tutte le schede bianche e barrare la casella col simbolo Pdl». Per tutto ciò c'era un prezzo: 200 mila euro. L'esponente politico azzurro però chiede al faccendiere calabrese garanzie anche sul voto in Calabria. «Nessun problema», si affretta a ribadire dal Venezuela, Miccichè. E per sancire un'alleanza strategica con Dell'Utri invia a Milano Antonio Piromalli, reggente del casato, figlio di Pino, detto «Facciazza », in carcere con il 41 bis e suo cugino Gioacchino, avvocato, radiato dall'ordine dopo una condanna per mafia. Miccichè gli raccomanda al telefono di essere convincenti con il senatore azzurro, facendo trasparire tutta la potenza della cosca non solo in ambito provinciale, ma nell'intera regione. L'incontro avviene nello studio di Dell'Utri. Il senatore forzista resta entusiasta del colloquio tant'è che al telefono, successivamente, si congratula con Miccichè per avergli fatto conoscere due «bravi picciotti». OAS_AD('Bottom1'); L'inchiesta della procura di Reggio Calabria nasce per caso e prende spunto da un omicidio. Quello di Salvatore Pellegrino, «l'uomo mitra», assassinato il 5 luglio dello scorso anno a Gioia Tauro. Pellegrino sarebbe stato ammazzato dai Piromalli — è l'ipotesi investigativa — perché ritenuto responsabile dei danneggiamenti alla cooperativa Valle del Marro, un tempo dei Piromalli e oggi, dopo la confisca, passata a Libera di don Ciotti. Le utenze dei Piromalli, in particolare quelle di Antonio e Gioacchino, sono messe sotto controllo. Si scopre così che i due rampolli della famiglia hanno continui scambi con Aldo Miccichè. Il faccendiere parla al telefono con tutti i politici italiani. Per gli inquirenti è un uomo che ha ancora molto potere in Italia. Si sente spesso con Clemente Mastella, allora ministro della Giustizia. In più occasioni parla anche con i suoi più stretti collaboratori. E chiede un favore: bisogna fare in modo che sia tolto il 41 bis a Pino Piromalli. La richiesta viene anche fatta a Dell'Utri, in cambio dell'appoggio elettorale dei Piromalli. L'indagine Why not della procura di Catanzaro coinvolge il ministro della Giustizia. È l'estate del 2007. La richiesta si blocca.

Carlo Macrì 12 aprile 2008 dal corriere.it


Olbia, la città-forziere della ’Ndrangheta

Olbia, la città-forziere della ’Ndrangheta


Maxi sequestro: i 520 ettari di Pitta, altri 70 a Santa Mariedda e Pittulongu

Il pm antimafia non esclude che il tesoro della cosca Ferrazzo (una cifra tra i 120 e 150 milioni di euro) possa essere finito nella maggiore città della Gallura

MILANO. I dirompenti effetti dell’inchiesta Dirty Money, avviata dalla Dda milanese sul riciclaggio di danaro sporco della ’Ndrangheta, si sono registrati, come un terremoto, alla periferia di Olbia. Sui 520 ettari di Spiritu Santu, i sessanta di Santa Mariedda e una decina di ettari a Pittulongu pende un’ordinanza di sequestro preventivo disposta dal pm antimafia Mario Venditti. Il gip di Milano Guido Salvini ha invece firmato un decreto di sequestro per la villa di Paolo Desole, attigua a quella del socio Salvatore Paulangelo, già bloccata nei giorni scorsi. E ieri sono cominciati gli interrogatori di amministratori, tecnici e professionisti. Qualcuno trema.
Per capacitarsi di quanto fosse esteso un terreno di 520 ettari il pm Mario Venditti -, il magistrato della Dda di Milano che sta seguendo l’inchiesta Dirty money, il danaro sporco della ’Ndrangheta calabrese -, ha sovrapposto più volte il perimetro aeroportuale del Costa Smeralda di Olbia (una sessantina di ettari) alla zona di Spiritu Santu.
Poi ha firmato l’ordinanza di sequestro, trasmessa alla magistratura di Tempio, che riguarda i terreni di Spiritu Santu di Giovanni Antonio Pitta, quelli ricadenti in zona San Nicola e Santa Mariedda (sessanta ettari), in parte inglobati nella società e un’altra decina di ettari, gestiti dalle finanziarie finite nell’inchiesta antiriciclaggio, oltre alla decina di ettari a Pittulongu di Desole e Paulangelo. Insomma, c’è sotto sequestro buona parte della periferia di Olbia.
Dal canto suo il gip milanese Guido Salvini non è rimasto con le mani in mano: nei giorni scorsi ha decretato il sequestro preventivo di due ville contigue a Punta Ruinas, sempre a Pittulongu, appartenenti a Salvatore Paulangelo e a Paolo Desole, i due amministratori della fallita società finanziaria di Zurigo, la Wfs/Pp ag.
Ma il terremoto scatenato dai due magistrati di Milano non si limita soltanto ai provvedimenti di sequestro. Da ieri, a Olbia, i carabinieri del Ros di Milano e i loro colleghi sardi hanno avviato gli interrogatori di “persone informate sui fatti”, in pratica amministratori pubblici, tecnici, componenti delle diverse commissioni edilizie che, tra il 2003 e il 2008, si sono occupate delle pratiche relative ai progetti presentati dalle diverse società immobiliari indagate e da Giovanni Antonio Pitta.
E poi ancora, nel lungo elenco dei testimoni, sono finiti liberi professionisti, geometri e architetti che hanno redatto progetti e preparato le osservazioni da presentare al consiglio comunale.
Il cliclone che ha investito la cosca della ’Ndrangheta capeggiata da “Topolino” Ferrazzo sta ora scaricando tutta la sua potenza in terra sarda. Per il sostituto della Dda milanese uno dei punti di arrivo «una volta rese note le nostre carte con l’ordinanza di custodia cautelare e disposto i dovuti sequestri a beni che riteniamo acquisiti con danaro riciclato dalla ’Ndrangheta - ha spiegato Mario Venditti -, è arrivare a scoprire dov’è nascosto il tesoro della cosca Ferrazzo, una somma che si aggira, secondo i nostri calcoli, tra i 120 e i 150 milioni di euro. Pur considerando gli affari non andati a buon fine e il danaro contante speso dagli affiliati alla banda in molteplici attività, restano pur sempre da recuperare somme ingentissime».
Per ricostruire la mappa che porta al forziere mancano ancora diversi brandelli, e a poco sono valse le dichiarazioni di due collaboratori di giustizia che hanno spiegato l’origine del danaro - il traffico internazionale di droga e armi - della cosca Ferrazzo-Iazzolino, i quali erano però all’oscuro delle operazioni di riciclaggio. L’avvocato Giuseppe Melzi, indicato come uno dei colletti bianchi della associazione criminale, sarebbe invece a conoscenza di molti di questi passaggi, oltre a quelli già sviscerati e resi pubblici dall’inchiesta Dirty Money.
Uno degli aspetti ancora “coperti” dalle indagini della Dda milanese riguarda le ville di Coda Ruinas di Salvatore Paulangelo e Paolo Desole, finite sotto sequestro preventivo perchè acquistate direttamente con danaro sporco.
Le due dimore, lo scorso anno, hanno ottenuto dall’ufficio tecnico del comune di Olbia licenze edilizie per ristrutturazioni e ampliamenti vari.
Il pubblico ministero Mario Venditti ha acquisito, oltre alle licenze finite nelle mani del Ros, anche le diverse normative regionali e la lista dei vincoli ambientali e paesaggistici della zona di Pittulongu. Il magistrato, ieri l’altro, si è intrattenuto a lungo, al telefono, con il sindaco Gianni Giovannelli.
Tra i due c’è stato uno scambio di informazioni ma anche la pressante richiesta (da parte del magistrato della Dda) di spedire al più presto a Milano il voluminoso dossier messo sotto sequestro sabato scorso dai militari del Ros nell’ufficio tencico comunale, riguardante le lottizzazioni di Pittulongu, Santa Mariedda e i terreni di Spiritu Santu.
«L’indagine non è ancora conclusa - ha spiegato Venditti - ma dobbiamo anche tener conto dello stato di detenzione di diversi indagati, da qui la necessità di acquisire, al più presto, ogni elemento e testimonianza utile per chiudere il caso».

va bene che ci sono --- sempre secondo la nuova sardegna ---
Da definire i ruoli dell’avvocato Melzi e di Antonello Melca
L’indagine è solo all’inizio


MILANO. Quando la barca affonda, i topi cercano scampo su ogni cosa che galleggia. Nel 2003, quando la magistratura elvetica stava per mettere le mani su Salvatore Paulangelo - il finanziere italo svizzero accusato a Zurigo di bancarotta fraudolenta per il fallimento della banca Wfs/Pp finanz, e in Italia di riciclaggio di danaro sporco appartenente alla costa Ferrazzo di Mesuraca -, l’uomo, con la moglie e il figlioletto, trovò riparo a Olbia, sotto l’ala protettrice di Antonello Melca, ex direttore sportivo del Tavolara e dell’Olbia Calcio. Nel 2005, quando la puzza di bruciato raggiunse le narici di Giuseppe Melzi, Paulangelo tentò di disfarsi degli immobili che aveva acquistato, in comunione di beni, con la moglie Domenica Bailon. L’avvocato Melzi avviò una causa di separazione legale, chiedendo l’affidamento dei figli ad un tutore, Antonello Melca.
«Appare evidente - scrive il gip Guido Salvini nel decreto di sequestro preventivo della villa di Punta Ruinas - che Salvatore Paulangelo intendeva proteggere il suo patrimonio, tra cui la barca “Imomai” già sequestrata, in previsione della prospettata completa messa a fuoco del crack delle società elvetiche e che in tale prospettiva la fittizia separazione legale dalla moglie Domenica Bailon, curata dall’avvocato Melzi, e il trasferimento della proprietà dell’abitazione ai figli minori servivano proprio alla difesa del patrimonio immobiliare dalle indagini della magistratura. Rilevato che l’abitazione, costruita, come si desume dalla documentazione allegata alla nota integrativa del pubblico ministero in data 5 marzo 2008 proprio contestualmente al dirottamento di ingenti somme dalle società che Paulangelo amministrava, è da considerarsi pertinente al reato contestato in quanto approntata con denaro proveniente dalla bancarotta, se ne dispone il sequestro».
L’indagine Dirty Money, lungi dall’essere conclusa, lascia intravvedere nuovi sviluppi (questa volta locali, con iniziative da parte della magistratura gallurese, che avrebbe aperto un fascicolo per “atti relativi” a carico di quanti hanno (esclusa la buona fede) avuto a che fare con la banda di “Topolino” Ferrazzo.
Gli interrogatori delle “persone informate sui fatti” sono appena cominciati, e in tanti sono chiamati a spiegare i rapporti intrattenuti con il gruppo guidato dall’avvocato Giuseppe Melzi. (g.p.c.)


nel fratempo l'amministrazione che fa ? resta alla finestra ad aspettare anzichè porvi rimedio sugli appalkti per il futuro .
Infattisempre secondo il giornale


Il Palazzo aspetta gli sviluppi
I politici cittadini: rispettiamo il lavoro dei magistrati


LUCA ROJCH

OLBIA. Pagine consumate di un successo editoriale insperato. Il best seller più letto e commentato nelle stanze del Palazzo è l’ordinanza della direzione distrettuale antimafia di Milano che racconta di investimenti e infiltrazioni della ’ndrangheta in città.
L’ex sindaco Settimo Nizzi ne cita alcuni passi a memoria in consiglio comunale, l’opposizione non smette di ripassare il contenuto del faldone. Oltre 260 pagine di quello che sembra un romanzo criminale, ma che arresti, blitz e sequestri di terreni hanno trasformato in un ciclone giudiziario. Il blitz dei Ros in Comune viene commentato con serenità dai consiglieri. «Sono felice che la magistratura indaghi sui fatti criminosi - spiega il capogruppo di Alleanza Nazionale, Gianfranco Bardanzellu -. Noi siamo contro la mafia e qualsiasi tipo di infiltrazione della malavita. Daremo la massima collaborazione alle forze dell’ordine». Sulla stessa linea anche uno dei senatori di Forza Italia in consiglio. «Olbia è una città che da sempre ha scatenato gli appetiti della malavita, come tutte le aree ad alto pregio - dice Giampiero Palitta -. Anni fa i terreni di Cugnana erano stati sequestrati alla mafia. Siamo felici che la magistratura ci difenda dai criminali. L’arrivo dei Ros in Comune non ci ha mai allarmato. Perché dovrebbe. Il loro è un atto dovuto, vengono ad acquisire delle carte per trovare riscontri alle tracce investigative. Quello che contesto è che si crei una politica del sospetto. Che si vogliano sussurrare ipotesi calunniose verso gli amministratori. Sono convinto che la mafia non possa attecchire in Sardegna». Da subito il sindaco Gianni Giovannelli ha mostrato la massima serenità e collaborazione con le forze dell’ordine. L’arrivo dei carabinieri in Comune era stato preceduto da una telefonata cordiale al primo cittadino. Giovannelli si è limitato a prendere tra le mani la lista di documenti presentata dai militari. Delibere, atti della commissione e del consiglio, Più o meno 16 mila pagine. Nelle scorse settimane era stato convocato anche un consiglio comunale tutto dedicato all’inchiesta Dirty Money. Una richiesta arrivata dall’opposizione, ma contestata dalla maggioranza. Per la maggior parte del centrodestra parlare di ’ndrangheta in aula era una sorta di offesa, di lesa maestà. «Il blitz dei carabinieri in Comune conferma la validità delle nostre preoccupazioni - afferma il consigliere Marco Varrucciu, Pd -. Mi fa felice che si faccia chiarezza su un episodio oscuro per la nostra città». Sulla stessa linea anche un altro esponente della minoranza. «L’inchiesta va avanti - dichiara Giorgio Spano -. Mi pare che questa ulteriore acquisizione degli atti sia una dimostrazione che è necessario parlare della situazione che in passato si era creata in città». Dai banchi dell’opposizione si era levata una proposta forte da parte del consigliere Carlo Careddu che aveva proposto la creazione di una commissione guidata dal prefetto. La task force doveva esaminare tutte le pratiche che sono finite al centro dell’inchiesta Dirty Money. Ipotesi contestata in modo duro dalla maggioranza. «Rimango convinto che sarebbe la soluzione più corretta - dice Careddu -. Ci si potrebbe limitare anche a creare una commissione fatta solo di consiglieri comunali. Non capisco il netto rifiuto della maggioranza».

fonte http://www.ammazzatecitutti.org

'ndrangheta al nord: investimenti a torino

TORINO 14/11/2007 - Un affare gigantesco. Quello dell’edilizia privata in città. Da uno studio commissionato dall’assessorato all’urbanistica del comune, emerge che, nel 2006, il volume d’affari relativo all’edilizia residenziale è stato di 3 miliardi e 200 milioni di euro. Un miliardo e 700 milioni di euro, quello per l’edilizia commerciale.

Affare colossale
In totale quasi 10 mila miliardi di vecchie lire. La ricerca ha evidenziato un totale identico nei due anni precedenti e individua, per il 2007, una nuova e significativa crescita. Una “torta” particolarmente gustosa che ha suscitato l’interesse delle organizzazioni criminali: mafia, ’ndrangheta, camorra. «Anche se - come suggerisce il vice questore torinese Fulvia Morsaniga - oggi, quando si parla di criminalità organizzata, osserviamo un intreccio malavitoso tra organizzazioni diverse ed elementi criminali stranieri».

Holding criminale
Una holding del malaffare capace di radicare le attività tradizionali (droga, armi, racket, contrabbando, prostituzione) e, nel contempo, di investire i profitti in affari leciti. Attività lucrose e ideali per riciclare il denaro sporco. Speculare sull’attività immobiliare non è reato ma «Quando si piazza una bomba sotto casa di qualcuno per indurlo a vendere l’immobile, allora la “musica” cambia», considera il procuratore aggiunto di Torino Maurizio Laudi.

Intimidazioni
Il riferimento a fatti di cronaca accaduti di recente in città è immediato: l’ordigno di tritolo trovato davanti ad una carrozzeria in via Salerno, gli incendi dolosi in un’autorimessa in via Messina, in una ditta di Rivoli e in un’altra di Settimo Torinese. Fatti quasi sempre preceduti dalla visita di un “amico di un amico”: «Perchè non mi vendi la tua attività?».

Sviluppo della città
Segnali che suscitano preoccupazione: «Sarebbe un errore rallentare lo sviluppo - è l’opinione dell’assessore all’urbanistica del comune Mario Viano - ma non per questo bisogna abbassare la guardia. È necessario vigilare con attenzione». I sospetti che le organizzazioni criminali intendano entrare nell’affare più redditizio sono numerosi, lo rileva lo stesso procuratore nazionale antimafia Piero Grasso: «Dopo l’arresto di Lo Piccolo oggi, ciò che più mi preoccupa, è l’attività criminale della ’ndrangheta, specie quella relativa agli investimenti di denaro sporco nel nord Italia».

Lotta alla mafia
Un allarme condiviso dai colleghi magistrati impegnati nella lotta contro la criminalità organizzata che venerdì scorso si sono riuniti a Milano: «Mentre le mafie hanno perso la loro connotazione militare - hanno detto Maurizio Laudi e Alberto Nobili, sostituto procuratore a Milano - e nel silenzio si sono intrufolate nei circuiti finanziari, la giustizia italiana ha allentato la sua pressione. Negli ultimi anni - hanno proseguito i magistrati - si è assistito ad un minor impegno della politica nell’investire risorse per il contrasto della criminalità organizzata».
Ai due magistrati fa eco, dalla procura di Catanzaro, il sostituto procuratore Cristina Manzini: «La forza intimidatrice è uno dei requisiti - dice il pm, riferendosi agli ultimi fatti criminosi accaduti a Torino - che caratterizza il fenomeno mafioso sia sul piano criminologico che sociologico».

Omertà
Minacce, ricatti, intimidazioni che troppo spesso non vengono denunciati e che accrescono il potere e il controllo della mafia sul territorio e negli affari apparentemente leciti. Non va tanto per il sottile Pierpaolo Cambareri, giornalista, scrittore, esperto di ’ndrangheta: «Il mafioso che vuole acquistare un’attività o un immobile e riceve un diniego, prende dei provvedimenti. Una bomba, un incendio. Stanca fino allo svenimento, terrorizza fino a che ottiene quello che vuole, e ad un prezzo stracciato. È un classico».

Capitali sospetti
A Torino sta accadendo qualcosa del genere? Lo sospetta anche Francesco Zito, economista, esperto di finanza: «Questa è una città misteriosa, nonostante la crisi, il record di pignoramenti immobiliari, i mutui che la gente non riesce a pagare, si continua a costruire e a vendere tutto, e a tempi di record». Opinione condivisa dal presidente Atc Giorgio Ardito: «In città non c’è più un solo fazzoletto di terra da utilizzare per l’edilizia popolare, questo la dice lunga».

fonte Marco Bardesono http://torino.cronacaqui.it

venerdì 4 aprile 2008

Pensieri di Mario La Cava

1) “(A Bovalino) Manca un interessamento alla politica e non si può affermare che il paese migliori per merito dei suoi dirigenti. A dare un’idea della noncuranza dei suoi amministratori, basta rilevare che i fondi di due ospizi di mendicità in 50 anni e più da che sono stati costituiti, non hanno raggiunto ancora lo scopo per cui erano stati destinati. In cambio vi sono molte persone intelligenti con le quali si può parlare, senza guastarsi il sangue; vi sono dilettanti nelle arti e nelle lettere, molto esperti; e soprattutto vi sono in così gran numero caratteri singolari, proprio a migliaia, da far pensare che qui un La Bruyére avrebbe di che imparare: tanto che alcuni anni fa due scrittori Toscani, Giorgio Vigni e Alessandro Bonsanti, il primo venuto a conoscenza diretta del paese, il secondo in modo indiretto, avevano notato meravigliati la cosa. Per il resto, la persona dabbene in generale è lasciata in pace, senza quegli odi forsennati degli altri paesi che rendono la vita difficile. Qui, né durante il Fascismo né con l’Antifascismo è successo nulla di grave. Siamo tutti amici, e una reciproca tolleranza è la bandiera che ci distingue.”


2) “…aspettavo il ritorno del padrone della vecchietta dalla campagna. Costui era un proprietario di tipo medio, uno di quelli in Calabria la cui vita è modesta e che tale pensava di dovere restare. Poteva per questo concedere alla vecchina di vivere in pace gli ultimi suoi giorni nel fondo che il marito per tanti anni aveva coltivato, senza pretendere una coltivazione accurata. Gli parlo e mi dice: «Hai fatto bene a avvertirmi. Provvederò a vendere subito le pecore. E quando andrà l’ufficiale giudiziario a pignorare, troverà un bel nulla. Che le venda il letto? Altro non ha! Il letto non glielo venderà…» «Va bene – risposi – Ma come vivrà la donna, senza il guadagno dell’allevamento?» «Per questo si… Però il veterinario avrebbe potuto fare a meno di denunziare tanta povera gente! Sono centocinquanta i denunziati… Il guaio è che si dovrebbe andare ad Ardore per stendere l’opposizione, se si facesse a tempo… Chi vuoi che vada ad Ardore?» «Ha detto che non l’avevi avvertita…» «Forse è vero: ma ella avrebbe dovuto saperlo… Chi mai ci avrebbe pensato? Facciamo così: non credo che le vadano a vendere subito le pecore. Appena potrò, andrò a trovare Pietro, il vicino, e mi metterò d’accordo con lui che si dichiari, in caso di necessità, proprietario delle pecore al posto della colona. Ella dirà che è una semplice guardiana; e quando gli ufficiali cercheranno di acciuffare le pecore, salterà fuori Pietro, il vicino. Altro non avranno da prenderle. Col tempo si dimenticheranno di lei…» «Forse è la soluzione migliore!» dissi; e per quella sera, dopo aver complottato da buon Calabrese l’imbroglio da tendere allo stato, per fare un’opera buona, ritornando a casa ebbi il cuore tranquillo.”

di Andrea Radosta

lunedì 11 febbraio 2008

GIUSEPPE TARDIO

Giuseppe Tardio agì nel Cilento tra il 1862 ed il 1863. Originario di Piaggine, ma vissuto a Campora era un uomo molto colto, infatti si era laureato nel 1858, a 24 anni, presso il Reale Liceo di Salerno. Dopo aver preso contatti a Roma con il comitato borbonico si imbarcò da Civitavecchia con trentadue uomini e sbarcò ad Agropoli per fare il capo-brigante anzi "il capitano comandante le truppe borboniche", come lui stesso si definiva. A questo gruppo di uomini se ne aggiunsero molti altri, la banda superò di gran lunga le cento unità. Tardio iniziò così la sua opera di sommossa popolare contro il "tirannico e fazioso dispotico regime Sabaudo" proprio da Agropoli e continuando per molti altri centri del Cilento, quali Centola, Foria, Camerota, Celle di Bulgheria, Novi Velia, Laurito, Vallo della Lucania ed altri ancora, a Futani disarmò l'intera guarnigione della Guardia Nazionale. Nei paesi da lui occupati si distruggevano i monumenti, le litografie gli stemmi reali e quant'altro potesse essere riferito al regime sabaudo o a Garibaldi, poi alla folla (che in genere lo accoglieva con simpatia) lanciava dei proclami, invitando i cittadini a schierarsi sotto il vessillo del "leggittimo sovrano Francesco II" e ad insorgere contro il tiranno subalpino che aveva ridotto la "seconda valle dell'Eden" (così definiva il Cilento) a "triste contrada di provincia" angariata da tributi e rendendo il popolo nelle condizioni simili ai quelle dei "barbari del settentrione del Medio Evo". Verso la fine del 1863 presso Magliano grande la sua Banda venne annientata da un attacco congiunto dei Carabinieri e della Guardia Nazionale e di lui si persero le tracce, fino a quando tradito da un suo concittadino, venne arrestato nel 1870; al processo scrisse una sua memoria difensiva in cui diceva: "io non sono colpevole di reati comuni poiché il mio stato, il mio carattere e la mia educazione non potevano mai fare di me un volgare malfattore; io non mi mossi e non agii che con intendimenti e scopi meramente politici; talché non si potrebbe chiamarmi responsabile di qualsivoglia reato comune che altri avesse per avventura perpetrato a mia insaputa contro la espressiva mia volontà e contro il chiarissimo ed unico scopo per cui la banda era stata da me radunata". Venne condannato a morte, ma la pena fu poi trasformata in lavori forzati a vita, morì a 58 anni avvelenato in carcere da una donna, se ne ignora il motivo.

Giuseppe TARDIO: studente brigante che comandava nel Salernitano una comitiva. Giovane di agiata famiglia che, dopo un viaggio a Roma ed i contatti con il Comitato Borbonico, tornò in paese per fare il capobrigante nel Cilento. Con la sua banda di circa 100 uomini fece irruzione in Agropoli, Laurito, Centola ed altri centri, disarmò la Guardia Nazionale di Futani. Nonostante fosse stato ferito ed avesse avuto un gran numero di morti nel suo gruppo, Tardio non desistette, si spostò nel Vallo di Diano e devastò case e poderi di liberali. Gli sbandati lo seguivano a valanghe. Fu attivissimo agitatore e trascinatore per tutto il 1862 e parte del 1863, fino all'attacco definitivo che gli fecero Carabinieri e Guardie Nazionali a Magliano Grande. Di Tardio si perdette ogni traccia, forse emigrò. Ma non fu il solo studente che combatté i piemontesi. Almeno altri due studenti furono accaniti combattenti contro i piemontesi, come risulta da un processo del 1864 citato dal Molfese. Tardio lanciava proclami "ai popoli delle Due Sicilie" incitandoli a schierarsi "sotto il vessillo del legittimo sovrano Francesco II contro il fazioso dispotismo del subalpino regime" firmandosi, "Capitano comandante le armi Borboniche"; non soltanto emanava proclami ma anche ordini di pagamento, talvolta eseguiti dalle autorità municipali.

fonti wwwbrigntaggio.net

Pietro Monaco

MARIA OLIVIERO DETTA CICCILA MOGLIE DEL BRIGANTE MONACO FU LA CAPOMILITARE DELLA SUA BANDA DOPO L'ASSASSINIO DEL MARITO, PER ECCELLENZA TRA TUTTE LE DONNE DEL BRIGANTAGGIO FU LA PIU' COMBATTIVA
VEDI http://it.youtube.com/watch?v=eO5nwpCpp-A




Pietro era un sottufficiale borbonico che, all'arrivo di Garibaldi, aveva disertato abbracciando la causa della rivoluzione. S'era arruolato col biondo liberatore e aveva combattuto, pare bene, guadagnandosi anche le spalline di sottotenente durante l'assedio di Capua. Ignoriamo quale particolare atto di valore compisse Monaco durante quell'episodio di guerra che non diede a nessuno dei contendenti occasioni di eroismo. Ricordiamo che Capua fu investita il primo novembre 1860 dal V Corpo dell'esercito italiano. Nel pomeriggio di quel giorno le artiglierie cominciarono a battere la città e il bombardamento durò molte ore, provocando incendi e vittime fra la popolazione civile. Gli abitanti rumoreggiando chiesero ai comandanti borbonici - capo di stato maggiore della piazza era quel capitano Tommaso Cava de Gueva di cui abbiamo citato gli scritti - che cessasse ogni resistenza. E Capua si arrese. Pietro Monaco, comunque, era un animoso: se combattè coi liberatori con lo stesso coraggio con cui fece il brigante, certamente si distinse. Ma l'avventura unitaria fu breve e deludente. Come tanti altri volontari, l'ex sergente borbonico fu smobilitato, emarginato, diventando di colpo disoccupato e sospetto alle nuove autorità. Era tornato a casa pieno di rancori e s'era impelagato nella lotta politica locale, fatta di contrasti fra clan disposti ad indossare tutte le casacche pur di arraffare potere nei paesi. Scivolato in una brutta storia di vendette e di offese, Pietro uccise un possidente di Serrapedace, piccolo centro alle falde della Sila, e dovette darsi alla macchia. Dopo poco tempo, era a capo di una comitiva di sbandati e di ribelli, era brigante. La sua guerra non ebbe alcun obiettivo politico preciso, né si collegò direttamente ai tentativi di restaurazione borbonica operati in altre zone del Mezzogiorno: fu una lotta, ben nota da secoli a molti calabresi, contro baroni e galantuomini che, in questo caso, s'erano schierati non disinteressatamente coi nuovi governanti. E naturalmente questa lotta faceva gioco ad altri baroni e ad altri possidenti che, per motivi diversi, col nuovo ordine non s'intendevano. Per capire la guerra di Pietro Monaco bisogna conoscere la Sila, aspra, fatata e boscosa che un insondabile disegno ha fatto sorgere su una terra circondata da un mare tiepido. La Sila, prima che la riforma agraria dei tempi nostri l'ingrigisse, era ricca di mandrie, abitata secondo il ritmo delle stagioni da caporali delle vacche, carbonai e contadini caparbi e parchi che la sfruttavano magari senza il ritegno e la pazienza che gli ecologi di oggi avrebbero usati. Il bisogno non è un buon consigliere. Era una montagna solenne e dura, bellissima e ricca. Sì, ricca, almeno secondo i metri di valutazione del tempo andato: oggi le montagne appaiono buone soltanto per gli albergatori e i turisti, ma una volta non era così. La Sila era amata e difesa, soprattutto dai contadini senza proprietà ai quali il regime demaniale di gran parte di quella terra garantiva il diritto di sfruttamento. Ma proprio per questo la storia della Sila è una storia di rivolte e di usurpazioni, di boschi e di pascoli contesi da baroni e contadini. Una vertenza secolare che periodicamente finiva davanti ai giudici, spesso davanti al giudice supremo, che era il re. I baroni tendevano ad usurpare le zone demaniali, i contadini difendevano il diritto di fare legna e di coltivare. La storia giudiziaria del regno di Napoli è piena degli scartafacci con cui le "università", le comunità, silane si opponevano alle pretese dei feudatari. Ma per scrivere quelle carte bisognava trovare gli avvocati, pagarli soprattutto, avere pazienza e fiducia nei giudici. E giudici e avvocati quasi mai erano dalla parte dei cafoni, i quali conoscevano anche sistemi più spicci per regolare le questioni. Accadeva così che spesso le carte legali lasciassero il posto alle fucilate. La vita nei borghi era avvelenata da faide, soprusi, violenze. Anche per questo il brigantaggio nella zona era endemico: i Borboni nel 1845 avevano istituito le corti marziali per gli "scorridori di campagna" e nel '47 avevano inviato il generale Statella a dirigere la represione della guerriglia contadina. Nel '49 era stato mandato il maresciallo Ferdinando Nunziante col potere di dichiarare lo stato d'assedio che di fatto, in alcune zone della Calabria, cessò soltanto nel '52. Ma nel '59, quando il regno era vicino alla fine, Francesco II aveva dovuto mandare in Calabria il generale Emmanuele Caracciolo di San Vito col potere di nominare consigli di guerra per giudicare i briganti. Il crollo dei Borboni aveva creato quindi una situazione di disordine e incertezza nella quale il brigantaggio divampò con rinnovata violenza: tutto il Sud era in rivolta, la stagione era propizia per regolare i conti sospesi. La fine del regno scatenò gli appetiti: era il momento di accaparrarsi le terre demaniali e quelle ecclesiastiche e chi poteva concorrere alle aste se non i vecchi baroni e i nuovi protagonisti, i "galantuomini"? I moti contadini scoppiarono- anche per questo, non sarebbero bastate le sobillazioni dei borbonici e del clero. Per molti briganti calabresi può valere la morale che si trae da un episodio riferito dallo storico Franco Molfese. Eccolo. Un avvocato fu sequestrato da una banda di briganti campani e, per ingraziarseli e convincerli a rilasciarlo, cominciò a vantare il suo borbonismo, l'attaccamento alla spodestata dinastia. Un brigante lo ascoltò per un poco, quindi tagliò corto, dicendogli: "Tu sei avvocato, sei un uomo istruito, pensi veramente che noi fatichiamo per Francesco II?". Ebbene, i briganti della Sila combattevano per se stessi, contro i nemici di sempre, e facevano la guerra contro i soldati per legittima difesa, ma anche perché i soldati rappresentavano un regime che appariva oggettivamente schierato contro i pastori e i contadini, un regime fatto su misura per i "galantuomini" accaparratori. Cominciarono a tirare sui bersaglieri con lo stesso spirito con cui avevano tirato sui soldati e sulle guardie urbane del Borbone. La banda di Pietro Monaco fu abbastanza numerosa, anche se non raggiunse mai le dimensioni di quelle di Crocco o di Chiavone. I capibanda calabresi collaboravano fra loro, ma non cercarono mai di centralizzare il comando delle forze; individualisti e sospettosi l'uno dell'altro applicavano fino in fondo il vecchio proverbio calabrese che dice: "Miegghiu cap'i licerta ca cud'i liuni" (meglio testa di lucertola che coda di leone). Gli obiettivi non erano direttamente i reparti militari, coi quali comunque si doveva fare a fucilate, quanto i possidenti e i loro servi armati, squadriglieri da quattro carlini al giorno, sempre ambigui, in equilibrio instabile e sospetto fra i briganti, gente del loro mondo, e i padroni che pagavano poco e tardi, dopo avergli fatto allungare il collo, ma pagavano. Pietro Monaco - descritto da Michele Falcone, un sequestrato che ebbe modo di osservarlo da vicino per molto tempo, come "tarchiato della persona, bruno di volto e di pelo, con occhi fieri e incavati che ispiravano diffidenza ed orrore,— attaccava masserie isolate, scannava greggi intere, metteva taglie sui proprietari. Ciccilla (su Maria Oliviero vedi video youtube di pedritoya) se ne stava a casa, in paese, dove il marito rientrava spesso. La latitanza era facile, c'erano i manutengoli, i galantuomini disposti ad aiutarlo. Marianna un giorno si accorse che il marito guardava, durante i periodi che trascorreva a casa, con troppo interesse la cognata. Marianna non ebbe dubbi e una notte, con trenta colpi di scure, come lei stessa ebbe poi a confessare, uccise per gelosia la sorella. Pietro, che probabilmente avrebbe preferito lasciarla a casa, dovette per forza portarla con sè, non poteva abbandonarla alla giustizia. Quei trenta colpi di scure, poi, erano un chiaro indizio di predisposizione alla vita brigantesca. Cosi Marianna alias Ciccilla smise la gonna e indossò la tenuta del fuorilegge, giubba coi rever decorati da monete usate come bottoni e calzoni di velluto, che in più occasioni la fecero scambiare per "un imberbe e biondo giovinetto". Tutti coloro che ebbero a che fare con lei non accennarono mai a una particolare ferocia, a una morbosa violenza del carattere, mentre del marito molti sottolinearono la spietatezza, compreso quel Michele Falcone il quale scrisse che Pietro Monaco "nella ferocia dell'indole ritraeva moltissimo Fra Diavolo, il fido amico di Carolina d'Asburgo". Ma Michele Falcone non era obiettivo e pagava il suo scotto di galantuomo acculturato alle mode politiche e letterarie dell'epoca. Come vivevano i briganti? Si prendevano qualche soddisfazione, ma la loro vita era dura. Dormire con un occhio solo, spesso all'addiaccio, muoversi sempre, camminare, cavalcare, col fucile che diventa il naturale prolungamento del braccio, dare morte e aspettarsi la morte. Senza pace, una giostra violenta fra boschi e fiumare, muoversi a primavera e in estate, quando i giorni sono lunghi e caldi, quietarsi in inverno, come le serpi, nelle capanne misere dei carbonai, ma sempre col duebotte fra le ginocchia. Mangiare e bere, certo, cavarsi la fame, una fame stagionata, più vecchia di loro, banchettando con le pecore dei signori che loro e i loro padri per anni avevano guardato senza poterle toccare. Bevevano il vino nero e aspro (ma qualche manutengolo mandava il rosolio) e usavano le loro donne senza vezzi, contadine ardite che soltanto da brigantesse si levavano, anche loro, qualche sfizio. Di denari ne maneggiavano tanti, ma ben poco rimaneva attaccato alle loro dita. L'arte di tenere i soldi è da "civili", presuppone una collaudata consuetudine con l'oro; i briganti scialavano per una breve stagione, sapevano che una palla prima o poi li avrebbe fermati. C'erano anche i manutengoli da ungere, la gente che faceva arrivare in campagna - rischiando grosso - armi e polvere, tabacco, notizie. Ma l'ebrezza di quella vita raminga era costituita dal potere. Quanto valeva la morte di un nemico odiato intensamente per anni? Che prezzo dare alla sottomissione di un piccolo don Rodrigo di paese? Questa era la droga dei briganti, la sensazione inebriante di poter creare e applicare, lì e in quel momento, l'unica legge. Dopo, ma soltanto dopo, sarebbero giunti i bersaglieri, gli squadriglieri e la morte. Amen. Al fondo della morale dei ribelli c'è una disperazione senza fine, la convinzione che nessun regime assicurerà quella giustizia giusta che ai cafoni serve più del pane. E se si deve scegliere fra i governanti antichi e nuovi, meglio il vecchio re, sospettoso dei galantuomini e dei baroni, il vecchio re pacioso degli aneddoti napoletani - Francesco II era giovane, ma quel che conta è l'archetipo del regnante borbonico - che quello nuovo, tutto sciabole e speroni e squilli di tromba e scariche di fucileria. Viva lu rre, quello loro, quello della Sila regia e della dogana delle pecore, e viva la Madonna del Carmine, perdio! Torniamo a Ciccilla e alla sua banda. Pietro Monaco in poco tempo diventò noto e temuto e vide aumentare il suo prestigio quando, nel dicembre del 1862, un brigante pentito, Giuseppe Scrivano, d'accordo con un suo parente capo di una squadriglia, il famoso Rosanova, tentò di ucciderlo. Scrivano - che poi, sempre facendo il doppio gioco, finì sparato per sbaglio dai bersaglieri - gli tirò, ma lo ferì soltanto. In Calabria, allora, gli infami non erano amati e il tradimento mancato servì alla leggenda di Pietro Monaco, al mito della sua invulnerabilità. Ma l'ex sergente borbonico preparò da sè la sua fine quando decise di sequestrare alcuni membri di una ricca famiglia di Acri, i Falcone. Fece il colpo nel settembre del 1863 (insieme con i Falcone sequestrò anche il vescovo di Nicotera e Tropea, De Simone, e un canonico che poi furono rilasciati), ma inseguito da truppa e squadriglieri dovette portarsi dietro gli ostaggi per due mesi. La famiglia Falcone (schierata col nuovo regime: uno dei giovani era caduto a Sapri e altri membri erano, subito dopo l'unità, organizzatori e comandanti della Guardia nazionale impegnata nella lotta alle bande) in più rate pagò 16 mila ducati, oltre ad armi e orologi d'oro, e avrebbe pagato anche di più se i sequestrati, approfittando di uno scontro a fuoco fra briganti e truppa, non fossero riusciti a fuggire. Comunque, i Falcone a Monaco la giurarono e fecero sapere in giro che avrebbero ben pagato chi gli avesse portato la testa del brigante. Nel dicembre di quello stesso 1863, Marrazzo, Celestino e De Marco, uomini della banda Monaco, si presentarono a casa Falcone e dissero che, se gli fosse stato fornito del veleno, avrebbero assassinato il capo. E indicativo che scegliessero subito l'arma delle femmine, non se la sentivano di alzare la mano contro Pietro. I Falcone gli diedero della stricnina, ma il colpo andò a vuoto, i tre cafoni non seppero avvelenare l'acqua. I traditori, quindi, dovettero passare a metodi più spicci e una notte tirarono due colpi mortali a Pietro Monaco addormentato in un pagliaio. Contemporaneamente spararono a Ciccilla, che rimase ferita a un braccio, e uccisero un altro uomo della banda, Giacomo Madeo. A questo brigante tagliarono la testa che, per molti giorni, fu esposta nel punto in cui i Falcone erano stati sequestrati. Ciccilla però non si arrese. Assunse il comando della banda e tenne la campagna per altri 47 giorni, fino a quando, circondata dalla truppa, dovette arrendersi. E furono questi 47 giorni a procurarle la fama. Sulla sua fine si hanno notizie discordanti. Secondo un'annotazione manoscritta sul retro di una fotografia segnaletica, Ciccilla fu condannata a morte e fucilata, secondo un'altra annotazione le furono inflitti quindici anni di galera. Gli assassini di Pietro Monaco furono portati in trionfo per tutti i paesi della Sila e le autorità invitarono i proprietari a fare una colletta per i "pentiti". Una procedura barbara, che fece scalpore e provocò la reazione delle autorità centrali. Marrazzo, Celestino e De Marco furono quindi arrestati e processati, ma la condanna fu mite.

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