mercoledì 30 aprile 2008

SUD LA NUOVA EMIGRAZIONE

Ogni anno 270 mila persone vanno al Nord Lavorano, ma le famiglie devono aiutarli


Non c’è stato partito che in campagna elettorale non abbia promesso il rilancio del Mezzogiorno e adesso perfino la Lega, con Roberto Calderoli, dice che «la questione settentrionale non può essere risolta se non si affronta la questione meridionale».
È successo anche che Confindustria, Cgil, Cisl e Uil hanno firmato un nuovo documento comune per il Sud. E, ovviamente, non sono mancati gli appelli degli economisti ad affrontare l’annoso problema delle «due Italie». Ma adesso, dopo il voto, chi si ricorderà di tutto questo?
Le persone in carne e ossa, intanto, cercano in prima persona una soluzione. Che spesso è la nuova migrazione da Sud a Nord. Che, ovvio, non è più quella degli anni Cinquanta e Sessanta, dei contadini poveri e ignoranti che con la valigia di cartone si trasferivano nel triangolo industriale per lavorare in fabbrica. Ma che, se è molto diversa qualitativamente, tocca però le stesse vette numeriche di allora. Ogni anno, infatti, si spostano dalle regioni meridionali verso quelle del Centro-Nord circa 270 mila persone: 120 mila in maniera permanente, 150 mila per uno o più mesi, dice l'istituto di ricerca Svimez. Un dato vicino a quello dei primi anni Sessanta, quando a trasferirsi al Nord erano 295 mila persone l’anno.
Una città intera che si spostaParlare di 270 mila uomini e donne che ogni anno vanno da Sud a Nord per lavorare o per studiare significa immaginare una città come Caltanissetta che si sposta tutta intera per trovare un futuro. Anche i contorni economici del fenomeno sono profondamente diversi da quelli del dopoguerra. Allora le rimesse degli emigranti generavano un flusso di risorse discendente, dalle regioni settentrionali a quelle del Mezzogiorno: servivano a mantenere le mogli o i genitori anziani rimasti al paese e magari a mandare avanti i lavori per costruire o ampliare la casa.
Oggi, al contrario, i soldi risalgono la Penisola, per sostenere gli studenti meridionali nelle Università del Nord o i lavoratori precari che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese, ma che tirano avanti con l’aiuto delle famiglie d’origine (comprese le pensioni dei nonni) con l’obiettivo di raggiungere poi il contratto a tempo indeterminato.
Il trend consolidatoAl ministero dello Sviluppo Economico, il viceministro Sergio D’Antoni ha stimato con i suoi tecnici che si arriva a circa 10 miliardi di euro che per tutti questi motivi (compreso il mancato sviluppo nel Sud) «emigrano» ogni anno dal Mezzogiorno al Nord. Il che non è esattamente il massimo per un Paese che dovrebbe ridurre le distanze tra le due Italie.
Spiega Delio Miotti (Svimez) che da tempo studia la nuova migrazione: «Negli ultimi anni si sta consolidando un trend: più di 120 mila persone all’anno si spostano dal Sud nelle regioni del Centro-Nord cambiando residenza. Sono in gran parte giovani, tra i 20 e i 45 anni, diplomati, ma uno su cinque è laureato. A questi bisogna aggiungere altri 150 mila che si trasferiscono al Nord come pendolari di lungo periodo, cioè per almeno un mese. Sono studenti o lavoratori temporanei che non si possono trasferire stabilmente perché non hanno un reddito sufficiente per mantenersi e per portare la loro famiglia nelle regioni settentrionali, dove la vita è più cara ».
Ma se è così, perché questa emigrazione non fa più notizia? «Perché chi emigra —risponde D’Antoni— non ha problemi d’integrazione con la realtà del Nord: spesso è un giovane che usa Internet e parla inglese come i suoi coetanei settentrionali. Non diventa quindi un caso sociale, come negli anni Cinquanta.
Quella di adesso è perciò un’emigrazione invisibile, silenziosa ». Eppure ci sono comuni che lentamente si vanno svuotando delle energie migliori. Quelli a più alto tasso migratorio (intorno all’8 per mille annuo) sono in Calabria: Cirò, Petilia Policastro, Dinami, Rocca Imperiale. La zona di Cirò, in provincia di Crotone, tra il ’91 e il 2006 ha visto un calo di popolazione del 34% circa.
I giovani studentiSe ne vanno parecchi giovani per studiare nelle Università del Centro- Nord: 151mila nell’anno accademico 2005-2006. Più di 36 mila sono partiti dalla Puglia, 25 mila dalla Calabria, 24 mila dalla Sicilia, 23 mila dalla Campania. Una parte di questi non torneranno più indietro. L’agenzia governativa Italia Lavoro ha calcolato che a fronte di 67 mila neo-laureati del Sud previsti in ingresso nel mercato del lavoro nel 2007, le imprese industriali e dei servizi del Mezzogiorno hanno espresso, nello stesso anno, una domanda di laureati pari a 12.390 unità, il 16,4% del totale. Anche se si sommano i neolaureati richiesti dalla pubblica amministrazione e dal lavoro autonomo, si può stimare che circa la metà dei giovani che si laureano nelle regioni meridionali è di troppo rispetto alla domanda locale. Nessuna meraviglia, conclude quindi Italia Lavoro, se questi giovani cercano lavoro altrove e se il 60% dei meridionali che si laurea al Nord, vi rimane anche dopo la laurea. Per necessità, più che per scelta.
Gli incentiviOra non ci sarebbe niente di male se questo fenomeno fosse indice di una società mobile, all’americana. Il fatto è che in Italia questo movimento è a senso unico, con un progressivo impoverimento del Mezzogiorno. Per combattere questo trend i vari governi hanno provato a incentivare fiscalmente le assunzioni nel Sud. Nell’ultima Finanziaria è stato inserito anche un bonus di 400 euro al mese per sei mesi per i neolaureati che svolgono stage nelle imprese del Sud che, se poi li assumono, ricevono un contributo di 3 mila euro. Il meccanismo sta funzionando, afferma D’Antoni. Ma non è solo un problema di incentivi. Paolo Sylos Labini, il grande economista morto nel 2005, che amava il Mezzogiorno, ripeteva che la questione meridionale prima ancora che economica è una questione civile. In altri termini, non è solo la domanda di lavoro qualificato che deve aumentare, ma devono migliorare anche le condizioni generali di vivibilità, dal funzionamento della pubblica amministrazione al controllo del territorio da parte dello Stato contro la criminalità. Altrimenti, in silenzio, i migliori se ne vanno.



Enrico Marro23 aprile 2008 WWW.CORRIERE.IT

martedì 29 aprile 2008

Messina, cent'anni nelle baracche

Messina, cent'anni nelle baracche: nel 1909 dopo i massacri effettuati dai Savoia è il terremonto ad infierire sulla città radendola completamente al suolo. Sia lo stato unitario prima che la repubblica dopo si sono "occupati" di "riparere" i danni subiti dalla città. Oggi dopo 150 anni i messinesi hanno le stesse identiche baracche che i savoia costruirono per loro, qualcuno, li nello stretto oggi rimpiange la gestione di Ferdinando II di Borbone qundo la città siciliana era tra le piu belle d'europa.


Esattamente un secolo fa, il sisma devastava la città dello stretto. Le capanne dei terremotati - 3.336 - sono ancora lì: popolate da gente che lavora, paga spazzatura e affitto, e deve ammazzare i topi a cucchiaiate. Senza più la speranza che questa vita «provvisoria» finisca
Il ponte di Messina, di questo pezzo di Messina che sconcia gli occhi e offende la ragione, è una passerella in legno di tre metri e poco più: ingegneria della povertà per superare uno stretto di liquami, un rigagnolo fognario a cielo aperto di scarichi e urina, che divide due blocchi di baracche. Campata unica d’assi marce, è stato tirato su da chi ha il coraggio e la necessità di campare qui dentro, in case che case non sono: eternit a far da tegola e, dentro, pareti morsicate dalle crepe e soffitti tinteggiati a muffa. Favelas del quartiere Giostra. Neanche la peggiore nella città che delle baracche ha fatto il monumento alla sua trasandatezza, i suoi cent’anni di baracchitudine: da quando, all’alba del 28 dicembre 1908, un terremoto devastante – magnitudine 7,2 della scala Richter – si portò via ogni cosa e quasi ogni casa: un bel po’ della Messina (e della Reggio Calabra) di allora e pure la vita di 80mila persone. Perché queste fatiscenze di Giostra – e quelle di Camaro o di Fondo Fucile – non compongono un villaggio tirato su l’altro giorno da qualche famiglia di rom.
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-->Non sono le nuove emergenze dell’emigrazione, ma spettrali residenze italiane: la terza generazione delle baracche, le nipotine delle prime capanne offerte e montate da svedesi e americani, svizzeri e prussiani, all’indomani del terremoto, quando Messina diventò tutta di legno – compreso teatro, municipio e duomo – prima che il Fascismo costruisse baracche in muratura (le madri di quelle di Giostra), e la Repubblica, dopo i bombardamenti dell’ultima Guerra, inventasse queste «casette ultrapopolari a uso provvisorio», con vista sugli scarichi e affaccio su strade-cunicoli che sono tavolozza di ogni puzza, abitate da messinesi che lavorano (quando di lavoro ce n’è); che votano (spesso in cambio di promesse mai mantenute); che pagano la spazzatura (che li circonda), la corrente elettrica (ragnatele di fili volanti, stramate dai corti circuiti) e pure l’acqua del rubinetto (ma è gratis quella che piove dentro gli alloggi).
Generazioni di baracche e generazioni di messinesi che lì dentro ci hanno vissuto e ancora ci vivono, in più di tremila, nell’anno domini 2008, a cent’anni dal sisma: i quartieri dell’Annunziata, del Fondo De Paquale o di Giostra, come le stratificazioni geologiche della storia d’Italia, della sua classe politica siciliana e no, del suo squallore. Ché le baracche di Messina sono, oggi, una lezione di architettura da favelas a cielo aperto, dove l’infiltrazione mafiosa e quella dai soffitti, che si aprono su squarci di cielo, sono tutt’uno. E forse il solo luogo, di questo Paese, dove persino i luoghi comuni si schiodano dalla realtà come le assi di Concetta Albano, le mura della sua baracca: qui non puoi azzardarti a pronunciare una frase da niente, un modo di dire come sarà passato un secolo, senza che ti si torca lo stomaco mentre cerchi di manda giù alla meglio un groppo di indignazione e compassione.
Sembra una trincea, la baracca della signora, il fronte di una catastrofe umana: una sola stanza; un cesso nascosto da una porta di cartone che nulla può contro l’odore; il lavandino di fuori, oltre un cortile di cemento dove passeggiano i topi: «Ieri sera ne ho ammazzato uno dandogli una cucchiaiata in testa». Col suo unico cucchiaio. Ha ottant’anni la signora Concetta e in quella baracca, una di quelle del 1909, finanziata con i trenta milioni di lire sstanziati dal primo ministro Giovanni Giolitti, ci ha passato tutta la vita. «Prima sono morti i genitori, poi mio fratello se n’è andato e non l’ho più visto. Lavoravo come donna delle pulizie nelle famiglie. Ero brava e veloce. E aspettavo che qualcuno mi desse finalmente una casa. Me l’hanno promessa tante volte, ma io sono sempre qui».
Parla a fatica e cammina a piedi nudi tra i topi perché le scarpe sono ancora più insopportabili per i suoi piedi gonfi. Però si assesta di continuo i capelli grigi e appiccicosi e alla fine, tra due lacrime da sfinimento e una risata esagerata, di quelle per non piangere, apre uno dei sacchetti di plastica che le fanno da armadi e mostra una foto di quando era giovane e bella. E la baracca di legno, come il futuro, non faceva ancora paura. Siamo all’Annunziata, quartiere nord con vista sullo Stretto. Appena sopra, sul limitare della vergogna, ecco i nuovi palazzoni dell’Università e poco più in basso la metropolitana di terra conosce il capolinea, giusto in faccia al nuovo museo della città dove sono esposti Caravaggio e Antonello da Messina. E quella di Concetta Albano e della sua baracca, tirata su mentre a Palermo la mafia uccideva Joe Petrosino, sembra la perfetta metafora del «terremoto infinito» – delle false promesse, degli aiuti a fondo sperduto, del provvisorio che diventa per sempre – e di una città, regione, nazione sfinite. Solo che la vita di Concetta, dentro al suo tugurio – i pasti assicurati dalle suore del convento vicino, l’emergenza sanitaria dall’assistenza sociale – non è una metafora. E nemmeno quella di Orazio Giuseppe Andronaco e degli altri invisibili delle baracche, uomini e donne dimenticati da ogni lista di assegnazione ma segnati da un’età che non è la loro: i visi che non corrispondono all’anagrafe, invecchiati prima del tempo, prosciugati da alloggiamenti insalubri e rugati dall’umidità.
Dice Orazio Giuseppe, due blocchi di baracche più in là: «Ho 73 anni, raccoglievo ferro vecchio, e qui dentro ho tirato su la mia famiglia: mia moglie, che qualche anno fa è morta, e i nostri dieci figli». E qui dentro sono due stanze, una invasa di barattoli e stracci e robivecchi e l’altra rimpicciolita da un monumentale matrimoniale: «Ci dormivamo tutti insieme, uno sopra l’altro, come animali». E arredata con sei ventilatori e la bombola per l’ossigeno: «D’estate si muore dal caldo». E non solo per il caldo: soffitto opprimente con tettoia d’amianto. «E dire che a me basterebbe una mini-casa se me l’assegnassero. Anche se, per fortuna, due dei miei figli, guardi un po’ qui dietro, mi hanno costruito un bagno decente». Chissà cosa doveva essere prima, quando la famiglia cominciò ad allargarsi, nel 1951. «Ha visto? Case per cani, non per umani», si sfoga Eleonora, da mezzo secolo dentro alloggi di sfortuna che sembrano scatole da scarpe che hanno preso l’acqua.
È come se fossero appena passati, il terremoto e la guerra, in questi angoli di Messina di cui la città si vergogna. E non ama parlarne, salvo mandare a dire, quando c’è da votare, che presto ognuno avrà la sua casa. Certo, anche Domenico, che ha 20 anni ma non un lavoro, e la sorellina che fa la seconda elementare e adora «High School Musical e Zac Efron ma vorrei saper cantare come Gabrielle». Non puoi accettare che possa vivere lì, a un metro e mezzo dalla casa di Oronzo, dirimpettaia di baracca, con la madre Gaetana, 42 anni, che adesso va «a servizio», dopo due anni al Nord, «in un pastificio di Mantova, con contratto a termine, finché c’è stato lavoro». Eppure anche Gaetana, quando aveva l’età di sua figlia – come la signora Concetta negli anni Trenta – era sicura di andarsene un giorno o l’altro, convinta che la baracca non sarebbe stata per sempre la sua vita.
18 ANNI FA: L’ULTIMA LEGGE PER IL RISANAMENTO Sì, certo. C’è una legge regionale del luglio ‘90, l’ultima in ordine di tempo, che prevede il risanamento di Messina: una legge speciale dove si annuncia lo sbaraccamento e la riqualificazione urbana e sociale, mettendo a disposizione, ai tempi, 500 miliardi di lire. Peccato che ne siano stati usati solo 150, gli altri perduti chissà come e finiti chissà dove. I piani particolareggiati sono stati approvati solo nel 2002 (e nel 2004 la regione Sicilia ha stanziato altri 70 milioni di euro) ma gli espropri, le demolizioni e le nuove costruzioni hanno il freno a mano tirato dei ritardi e delle burocrazie, tanto che – secondo un censimento di Legambiente – sono ancora 3336 i nuclei baraccati presenti in città. Così, alla fine, per disperazione certe famiglie ormai fanno le terremotate a vita. Ottenuta una nuova casa popolare, lasciano ai figli la baracca nelle favelas, in un’interminabile catena-di-sant’antonio della povertà: ma è ’unica eredità consentita a chi – nel ’61, i giorni del boom, erano ancora 30mila i baraccati di Messina – ha vissuto dove è indegno vivere e solo quel tesoro ha da offrire.
E se accenni al Ponte sullo Stretto si mettono a ridere e indicano il loro, con vista sul liquame. Fondo De Pasquale e Fondo Basile, Giostra e Annunziata, Camaro e Fondo Saccà. Ecco le colline dove riposano le baracche, le spoonriver dei vivi-malgrado-tutto con il loro catalogo di storie come quella della signora Lilla di Giostra, in baracca dal ’27, una di quelle tirate su dal Fascismo, e ancora lì ottant’anni dopo, anche lei in compagnia di insetti e topi, il tetto che sta su per miracolo. O quella di Maria T. di Camaro, 70 anni e stesso alloggiamento, che lo scorso autunno è andata a stare qualche giorno dal figlio, a Parma, e al ritorno ha trovato la baracca occupata, tanto che, minacciata dai «nuovi terremotati», ha dovuto rivolgersi all’avvocato, per iniziare un’altra guerra tra poveri; o quella della signora Letteria di Villa Lina, che nel 2006, a 92 anni – sì, insomma, una quasi coetanea del terremoto –, dopo aver cresciuto quattro figlie in una stanza ed essere diventata nonna e bisnonna, ha fatto in tempo a vedersi assegnata una vera casa.
Oppure quella di Francesco Assenzio, classe 1911, che per cinquant’anni, ogni anno, fece domanda di una casa – senza successo, naturalmente – fino a quando se ne andò per sempre nel ’98, quattro anni prima di diventare trisnonno di un altro Francesco Assenzio, nato pure lui tra il legno, le lamiere e il provvisorio infinito. Commento di Maria A., 55 anni di Giostra, un’unica stanza divisa in tre, un vecchio televisore per stanza: «Non ce n’è di travaglio qui e adesso il Comune ci chiede il fitto arretrato per queste baracche: 3500 euro. E io dove li trovo?». Epigrafe di un’altra Maria, 43 anni, vicina di casa: «Ha visto quanto è largo il vicolo? Se si ingrassa non si passa, ma non c’è rischio. Ma non ci passa neppure la cassa da morto quando si va al cimitero. E di solito arriva prima quello dell’assegnazione. Non c’è da sperare qui»
Qui, dove nell’inverno del 1909, a poco più di un mese dal terremoto, la città era sì pura maceria, ma dava anche l’idea del cantiere, tanto che Luigi Barzini, sul Corriere, regalò da quaggiù – era il 4 febbraio 1909 – la speranza che «un grande avvenire si preparerà per Messina». Ma durò poco, quando gli aiuti, giunti da mezzo mondo, se ne tornarono a casa, l’illusione s’imbarcò con loro: già il 9 maggio la baracca – una parola durata un secolo e ancora in piedi nei resoconti – prendeva possesso delle cronache, ché «per l’assegnazione delle baracche, contro soprusi e favoritismi, la polizia sparò contro la folla lasciando sul terreno 5 morti». Da allora, sul terreno, Messina ha lasciato le baracche: sopravvissute al re e al fascismo, a due guerre mondiali e pure ai 61 governi della Repubblica. Monumenti (con) viventi a un secolo d’Italia.

Cesare Fiumi15 aprile 2008 (ultima modifica: 16 aprile 2008) www.corriere.it

sabato 26 aprile 2008

MARCELLO DELL'UTRI E LA 'NDRANGHETA

La ‘ndrangheta traffica in voti - Dell’Utri: ”Non ho avvisi di garanzia. Ho solo parlato con una persona che voleva occuparsi del voto degli italiani all’estero” REGGIO CALABRIA - E’ Marcello Dell’Utri il parlamentare coinvolto nell’inchiesta sull’intervento della ‘ndrangheta sul voto degli italiani all’estero: “Non ho ricevuto alcun avviso di garanzia” ha detto all’Ansa. Dell’inchiesta “ho letto sui giornali”. Poi ha spiegato: “Non conosco personalmente Aldo Micchichè ma l’ho sentito per telefono” e l’ho messo in contatto con Barbara Contini perché “lui si è offerto di occuparsi dei voti degli italiani all’estero”. Barbara Contini è l’ex governatore di Nassiriya, candidata per il Pdl al Senato in Campania. Dell’Utri respinge qualsiasi ipotesi di coinvolgimento in vicende di presunti brogli: “Stiamo scherzando? Stiamo dando i numeri! Se vogliono sollevare un polverone elettorale, io questo putroppo non lo posso impedire. Ma - ripete - stiamo dando i numeri”. Sul merito, Dell’Utri aggiunge: “Con Micciché ero entrato in contatto qualche mese fa per ragioni di energia. Lui in Venezuela si occupa di forniture di petrolio. Io ero in contatto con una società russa che ha sede anche in Italia, per cui - spiega Dell’Utri - conoscendo questi russi ho fatto da tramite”. “Questo signore si è interessato di organizzare il voto degli italiani all’estero come si sono attivate tutte le persone di tutti i partiti e di tutte le latitudini. Quindi non vedo dove sia la materia del contendere”. Miccichè - prosegue il senatore di Forza Italia - “non lo conosco fisicamente. E’ un personaggio peraltro notissimo in Italia. E’ stato amministratore della Dc negli anni ‘60-’70. Credo che a suo tempo abbia avuto delle vicende giudiziare legate a Tangentopoli. Per il resto è un cittadino che vive da molti anni in Venezuela, con famiglia. Non vedo cosa ci sia di strano”. La sconcertante ipotesi dell’intervento sulle elezioni delle cosche calabresi sulla quale sta lavorando la Dda di Reggio Calabria, nasce da un’intercettazione nella quale si fa esplicito riferimento alla possibilità di “controllare” cinquantamila voti, in cambio di una contropartita in denaro di 200 mila euro. L’inchiesta di Reggio. I magistrati reggini avrebbero ascoltato una conversazione tra esponenti della cosca Piromalli ed il parlamentare siciliano candidato al Parlamento Italiano. Nell’inchiesta è coinvolto un uomo d’affari, Aldo Micciché, da tempo residente in America Latina. Il tentativo d’inquinamento del voto avrebbe mirato a condizionare l’esito della consultazione elettorale facendo risultare come votate circa 50mila schede bianche. Un meccanismo piuttosto semplice. Corrompendo le persone giuste al posto giusto, infatti, i clan avevano intenzione di apporre sulla scheda un segno di preferenza proprio a vantaggio del partito dell’esponente politico siciliano. Un lavoro “pulito” quindi, che non avrebbe lasciato tracce grazie a “manine amiche” che avrebbero barrato le schede di ritorno. Un piano che evidentemente avrebbe potuto falsare l’esito elettorale. Pochi i dettagli sull’inchiesta. E’ certo che gli investigatori stavano controllando alcuni telefoni sulle tracce dei soldi dei Piromalli, per cercare di capire come la cosca riuscisse a riciclare i milioni di euro del traffico di stupefacenti. Da qui la scoperta. Micciché, da tempo residente in Venezuela, parla con il politico definito “un pezzo grosso”. Oggetto del colloquio è la mobilitazione dei consoli onorari, che avrebbero avuto un ruolo determinante nel controllo del voto. La notizia è stata confermata dal procuratore della Repubblica facente funzioni, Francesco Scuderi, che non ha inteso però fornire ulteriori particolari. “Il momento, visto che siamo ad appena due giorni dal voto - ha detto Scuderi - è delicatissimo, anche perché negli articoli riportati sui giornali ci sono molti dettagli che avrebbero dovuto rimanere riservati, e sarebbe irresponsabile da parte nostra in questo momento rivelare ulteriori particolari”. “Dopo il voto - ha aggiunto Scuderi - potremo fornire qualche notizia in più. Al momento non è il caso di dire alcunché”. Nei giorni scorsi lo stesso Scuderi ed il pm della Dda Roberto Di Palma, titolare dell’inchiesta, avevano incontrato il ministro dell’Interno Giuliano Amato per informarlo sulle risultanze dell’inchiesta. Come si ricorderà, già alle scorse elezioni furono segnalati alcuni casi di brogli legati proprio alle schede del voto estero. Amato: “Il Viminale sarà una casa di vetro”. Sulla vicenda è intervenuto il ministro dell’Interno Giuliano Amato. “Nei giorni scorsi ho ricevuto una comunicazione da parte della Procura di Reggio Calabria su tentativo di broglio per il voto all’estero”. “Si tratta di materia coperta dal segreto istruttorio. Dopo aver ricevuto la notizia ho subito attivato il ministero degli Esteri che ha provveduto con particolare attenzione a garantire che quelle schede non vengano mai perse di vista”. Sapere, ha aggiunto, “che ci sono persone che scambiano denaro per il voto non è mai una soddisfazione, ma le misure adottate dal ministero degli Esteri possono aver prevenuto il danno”. Il ministero ha allertato i consolati. Amato ne ha approfittato per dire che durante le operazioni di voto “il Viminale sarà una casa di vetro”. “A questo proposito ho invitato gli ex ministri come Maroni, Scajola, Pisanu ed Enzo Bianco.

Giuseppe Baldessarro repubblica.it


Voto di scambio all'estero
Dell'Utri nelle intercettazioni Indagine su 50 mila schede, coinvolti uomini della 'ndrangheta Le intercettazioni: «Si tapperanno gli occhi quando barreremo le schede bianche con il simbolo Pdl»



REGGIO CALABRIA — Stando all'inchiesta della procura di Reggio Calabria sui possibili brogli elettorali commissionati all'estero, spunta il nome del senatore di Forza Italia Marcello Dell'Utri. Dalle intercettazioni telefoniche il faccendiere-bancarottiere Aldo Miccichè, calabrese di Maropati, avrebbe affidato il compito di sostenere la lista Berlusconi alla cosca Piromalli di Gioia Tauro, il casato di 'ndrangheta più potente in Calabria. Miccichè, intanto, dal Venezuela dove si è rifugiato per sottrarsi alla condanna definitiva per bancarotta fraudolenta e millantato credito, avrebbe messo a disposizione del senatore di Forza Italia i suoi legami con il cartello di 'ndrangheta sudamericana per favorire il controllo del voto degli italiani all'estero, mobilitando i consoli onorari. Nel dossier di circa 430 pagine consegnato al ministro dell'Interno Amato dal procuratore distrettuale di Reggio Calabria Francesco Scuderi e dal pm Roberto Di Palma, si capisce come le schede bianche, circa 50 mila, sarebbero diventate voto utile per il partito di Berlusconi. Miccichè al telefono con Dell'Utri si dice convinto che l'operazione andrà in porto. «Basterà pagare qualche addetto ai lavori — dice rivolgendosi a Del-l'Utri, chiamandolo per nome —. I responsabili delle votazioni si tapperanno entrambi gli occhi quando qualcuno dei nostri si preoccuperà di recuperare tutte le schede bianche e barrare la casella col simbolo Pdl». Per tutto ciò c'era un prezzo: 200 mila euro. L'esponente politico azzurro però chiede al faccendiere calabrese garanzie anche sul voto in Calabria. «Nessun problema», si affretta a ribadire dal Venezuela, Miccichè. E per sancire un'alleanza strategica con Dell'Utri invia a Milano Antonio Piromalli, reggente del casato, figlio di Pino, detto «Facciazza », in carcere con il 41 bis e suo cugino Gioacchino, avvocato, radiato dall'ordine dopo una condanna per mafia. Miccichè gli raccomanda al telefono di essere convincenti con il senatore azzurro, facendo trasparire tutta la potenza della cosca non solo in ambito provinciale, ma nell'intera regione. L'incontro avviene nello studio di Dell'Utri. Il senatore forzista resta entusiasta del colloquio tant'è che al telefono, successivamente, si congratula con Miccichè per avergli fatto conoscere due «bravi picciotti». OAS_AD('Bottom1'); L'inchiesta della procura di Reggio Calabria nasce per caso e prende spunto da un omicidio. Quello di Salvatore Pellegrino, «l'uomo mitra», assassinato il 5 luglio dello scorso anno a Gioia Tauro. Pellegrino sarebbe stato ammazzato dai Piromalli — è l'ipotesi investigativa — perché ritenuto responsabile dei danneggiamenti alla cooperativa Valle del Marro, un tempo dei Piromalli e oggi, dopo la confisca, passata a Libera di don Ciotti. Le utenze dei Piromalli, in particolare quelle di Antonio e Gioacchino, sono messe sotto controllo. Si scopre così che i due rampolli della famiglia hanno continui scambi con Aldo Miccichè. Il faccendiere parla al telefono con tutti i politici italiani. Per gli inquirenti è un uomo che ha ancora molto potere in Italia. Si sente spesso con Clemente Mastella, allora ministro della Giustizia. In più occasioni parla anche con i suoi più stretti collaboratori. E chiede un favore: bisogna fare in modo che sia tolto il 41 bis a Pino Piromalli. La richiesta viene anche fatta a Dell'Utri, in cambio dell'appoggio elettorale dei Piromalli. L'indagine Why not della procura di Catanzaro coinvolge il ministro della Giustizia. È l'estate del 2007. La richiesta si blocca.

Carlo Macrì 12 aprile 2008 dal corriere.it


Olbia, la città-forziere della ’Ndrangheta

Olbia, la città-forziere della ’Ndrangheta


Maxi sequestro: i 520 ettari di Pitta, altri 70 a Santa Mariedda e Pittulongu

Il pm antimafia non esclude che il tesoro della cosca Ferrazzo (una cifra tra i 120 e 150 milioni di euro) possa essere finito nella maggiore città della Gallura

MILANO. I dirompenti effetti dell’inchiesta Dirty Money, avviata dalla Dda milanese sul riciclaggio di danaro sporco della ’Ndrangheta, si sono registrati, come un terremoto, alla periferia di Olbia. Sui 520 ettari di Spiritu Santu, i sessanta di Santa Mariedda e una decina di ettari a Pittulongu pende un’ordinanza di sequestro preventivo disposta dal pm antimafia Mario Venditti. Il gip di Milano Guido Salvini ha invece firmato un decreto di sequestro per la villa di Paolo Desole, attigua a quella del socio Salvatore Paulangelo, già bloccata nei giorni scorsi. E ieri sono cominciati gli interrogatori di amministratori, tecnici e professionisti. Qualcuno trema.
Per capacitarsi di quanto fosse esteso un terreno di 520 ettari il pm Mario Venditti -, il magistrato della Dda di Milano che sta seguendo l’inchiesta Dirty money, il danaro sporco della ’Ndrangheta calabrese -, ha sovrapposto più volte il perimetro aeroportuale del Costa Smeralda di Olbia (una sessantina di ettari) alla zona di Spiritu Santu.
Poi ha firmato l’ordinanza di sequestro, trasmessa alla magistratura di Tempio, che riguarda i terreni di Spiritu Santu di Giovanni Antonio Pitta, quelli ricadenti in zona San Nicola e Santa Mariedda (sessanta ettari), in parte inglobati nella società e un’altra decina di ettari, gestiti dalle finanziarie finite nell’inchiesta antiriciclaggio, oltre alla decina di ettari a Pittulongu di Desole e Paulangelo. Insomma, c’è sotto sequestro buona parte della periferia di Olbia.
Dal canto suo il gip milanese Guido Salvini non è rimasto con le mani in mano: nei giorni scorsi ha decretato il sequestro preventivo di due ville contigue a Punta Ruinas, sempre a Pittulongu, appartenenti a Salvatore Paulangelo e a Paolo Desole, i due amministratori della fallita società finanziaria di Zurigo, la Wfs/Pp ag.
Ma il terremoto scatenato dai due magistrati di Milano non si limita soltanto ai provvedimenti di sequestro. Da ieri, a Olbia, i carabinieri del Ros di Milano e i loro colleghi sardi hanno avviato gli interrogatori di “persone informate sui fatti”, in pratica amministratori pubblici, tecnici, componenti delle diverse commissioni edilizie che, tra il 2003 e il 2008, si sono occupate delle pratiche relative ai progetti presentati dalle diverse società immobiliari indagate e da Giovanni Antonio Pitta.
E poi ancora, nel lungo elenco dei testimoni, sono finiti liberi professionisti, geometri e architetti che hanno redatto progetti e preparato le osservazioni da presentare al consiglio comunale.
Il cliclone che ha investito la cosca della ’Ndrangheta capeggiata da “Topolino” Ferrazzo sta ora scaricando tutta la sua potenza in terra sarda. Per il sostituto della Dda milanese uno dei punti di arrivo «una volta rese note le nostre carte con l’ordinanza di custodia cautelare e disposto i dovuti sequestri a beni che riteniamo acquisiti con danaro riciclato dalla ’Ndrangheta - ha spiegato Mario Venditti -, è arrivare a scoprire dov’è nascosto il tesoro della cosca Ferrazzo, una somma che si aggira, secondo i nostri calcoli, tra i 120 e i 150 milioni di euro. Pur considerando gli affari non andati a buon fine e il danaro contante speso dagli affiliati alla banda in molteplici attività, restano pur sempre da recuperare somme ingentissime».
Per ricostruire la mappa che porta al forziere mancano ancora diversi brandelli, e a poco sono valse le dichiarazioni di due collaboratori di giustizia che hanno spiegato l’origine del danaro - il traffico internazionale di droga e armi - della cosca Ferrazzo-Iazzolino, i quali erano però all’oscuro delle operazioni di riciclaggio. L’avvocato Giuseppe Melzi, indicato come uno dei colletti bianchi della associazione criminale, sarebbe invece a conoscenza di molti di questi passaggi, oltre a quelli già sviscerati e resi pubblici dall’inchiesta Dirty Money.
Uno degli aspetti ancora “coperti” dalle indagini della Dda milanese riguarda le ville di Coda Ruinas di Salvatore Paulangelo e Paolo Desole, finite sotto sequestro preventivo perchè acquistate direttamente con danaro sporco.
Le due dimore, lo scorso anno, hanno ottenuto dall’ufficio tecnico del comune di Olbia licenze edilizie per ristrutturazioni e ampliamenti vari.
Il pubblico ministero Mario Venditti ha acquisito, oltre alle licenze finite nelle mani del Ros, anche le diverse normative regionali e la lista dei vincoli ambientali e paesaggistici della zona di Pittulongu. Il magistrato, ieri l’altro, si è intrattenuto a lungo, al telefono, con il sindaco Gianni Giovannelli.
Tra i due c’è stato uno scambio di informazioni ma anche la pressante richiesta (da parte del magistrato della Dda) di spedire al più presto a Milano il voluminoso dossier messo sotto sequestro sabato scorso dai militari del Ros nell’ufficio tencico comunale, riguardante le lottizzazioni di Pittulongu, Santa Mariedda e i terreni di Spiritu Santu.
«L’indagine non è ancora conclusa - ha spiegato Venditti - ma dobbiamo anche tener conto dello stato di detenzione di diversi indagati, da qui la necessità di acquisire, al più presto, ogni elemento e testimonianza utile per chiudere il caso».

va bene che ci sono --- sempre secondo la nuova sardegna ---
Da definire i ruoli dell’avvocato Melzi e di Antonello Melca
L’indagine è solo all’inizio


MILANO. Quando la barca affonda, i topi cercano scampo su ogni cosa che galleggia. Nel 2003, quando la magistratura elvetica stava per mettere le mani su Salvatore Paulangelo - il finanziere italo svizzero accusato a Zurigo di bancarotta fraudolenta per il fallimento della banca Wfs/Pp finanz, e in Italia di riciclaggio di danaro sporco appartenente alla costa Ferrazzo di Mesuraca -, l’uomo, con la moglie e il figlioletto, trovò riparo a Olbia, sotto l’ala protettrice di Antonello Melca, ex direttore sportivo del Tavolara e dell’Olbia Calcio. Nel 2005, quando la puzza di bruciato raggiunse le narici di Giuseppe Melzi, Paulangelo tentò di disfarsi degli immobili che aveva acquistato, in comunione di beni, con la moglie Domenica Bailon. L’avvocato Melzi avviò una causa di separazione legale, chiedendo l’affidamento dei figli ad un tutore, Antonello Melca.
«Appare evidente - scrive il gip Guido Salvini nel decreto di sequestro preventivo della villa di Punta Ruinas - che Salvatore Paulangelo intendeva proteggere il suo patrimonio, tra cui la barca “Imomai” già sequestrata, in previsione della prospettata completa messa a fuoco del crack delle società elvetiche e che in tale prospettiva la fittizia separazione legale dalla moglie Domenica Bailon, curata dall’avvocato Melzi, e il trasferimento della proprietà dell’abitazione ai figli minori servivano proprio alla difesa del patrimonio immobiliare dalle indagini della magistratura. Rilevato che l’abitazione, costruita, come si desume dalla documentazione allegata alla nota integrativa del pubblico ministero in data 5 marzo 2008 proprio contestualmente al dirottamento di ingenti somme dalle società che Paulangelo amministrava, è da considerarsi pertinente al reato contestato in quanto approntata con denaro proveniente dalla bancarotta, se ne dispone il sequestro».
L’indagine Dirty Money, lungi dall’essere conclusa, lascia intravvedere nuovi sviluppi (questa volta locali, con iniziative da parte della magistratura gallurese, che avrebbe aperto un fascicolo per “atti relativi” a carico di quanti hanno (esclusa la buona fede) avuto a che fare con la banda di “Topolino” Ferrazzo.
Gli interrogatori delle “persone informate sui fatti” sono appena cominciati, e in tanti sono chiamati a spiegare i rapporti intrattenuti con il gruppo guidato dall’avvocato Giuseppe Melzi. (g.p.c.)


nel fratempo l'amministrazione che fa ? resta alla finestra ad aspettare anzichè porvi rimedio sugli appalkti per il futuro .
Infattisempre secondo il giornale


Il Palazzo aspetta gli sviluppi
I politici cittadini: rispettiamo il lavoro dei magistrati


LUCA ROJCH

OLBIA. Pagine consumate di un successo editoriale insperato. Il best seller più letto e commentato nelle stanze del Palazzo è l’ordinanza della direzione distrettuale antimafia di Milano che racconta di investimenti e infiltrazioni della ’ndrangheta in città.
L’ex sindaco Settimo Nizzi ne cita alcuni passi a memoria in consiglio comunale, l’opposizione non smette di ripassare il contenuto del faldone. Oltre 260 pagine di quello che sembra un romanzo criminale, ma che arresti, blitz e sequestri di terreni hanno trasformato in un ciclone giudiziario. Il blitz dei Ros in Comune viene commentato con serenità dai consiglieri. «Sono felice che la magistratura indaghi sui fatti criminosi - spiega il capogruppo di Alleanza Nazionale, Gianfranco Bardanzellu -. Noi siamo contro la mafia e qualsiasi tipo di infiltrazione della malavita. Daremo la massima collaborazione alle forze dell’ordine». Sulla stessa linea anche uno dei senatori di Forza Italia in consiglio. «Olbia è una città che da sempre ha scatenato gli appetiti della malavita, come tutte le aree ad alto pregio - dice Giampiero Palitta -. Anni fa i terreni di Cugnana erano stati sequestrati alla mafia. Siamo felici che la magistratura ci difenda dai criminali. L’arrivo dei Ros in Comune non ci ha mai allarmato. Perché dovrebbe. Il loro è un atto dovuto, vengono ad acquisire delle carte per trovare riscontri alle tracce investigative. Quello che contesto è che si crei una politica del sospetto. Che si vogliano sussurrare ipotesi calunniose verso gli amministratori. Sono convinto che la mafia non possa attecchire in Sardegna». Da subito il sindaco Gianni Giovannelli ha mostrato la massima serenità e collaborazione con le forze dell’ordine. L’arrivo dei carabinieri in Comune era stato preceduto da una telefonata cordiale al primo cittadino. Giovannelli si è limitato a prendere tra le mani la lista di documenti presentata dai militari. Delibere, atti della commissione e del consiglio, Più o meno 16 mila pagine. Nelle scorse settimane era stato convocato anche un consiglio comunale tutto dedicato all’inchiesta Dirty Money. Una richiesta arrivata dall’opposizione, ma contestata dalla maggioranza. Per la maggior parte del centrodestra parlare di ’ndrangheta in aula era una sorta di offesa, di lesa maestà. «Il blitz dei carabinieri in Comune conferma la validità delle nostre preoccupazioni - afferma il consigliere Marco Varrucciu, Pd -. Mi fa felice che si faccia chiarezza su un episodio oscuro per la nostra città». Sulla stessa linea anche un altro esponente della minoranza. «L’inchiesta va avanti - dichiara Giorgio Spano -. Mi pare che questa ulteriore acquisizione degli atti sia una dimostrazione che è necessario parlare della situazione che in passato si era creata in città». Dai banchi dell’opposizione si era levata una proposta forte da parte del consigliere Carlo Careddu che aveva proposto la creazione di una commissione guidata dal prefetto. La task force doveva esaminare tutte le pratiche che sono finite al centro dell’inchiesta Dirty Money. Ipotesi contestata in modo duro dalla maggioranza. «Rimango convinto che sarebbe la soluzione più corretta - dice Careddu -. Ci si potrebbe limitare anche a creare una commissione fatta solo di consiglieri comunali. Non capisco il netto rifiuto della maggioranza».

fonte http://www.ammazzatecitutti.org

'ndrangheta al nord: investimenti a torino

TORINO 14/11/2007 - Un affare gigantesco. Quello dell’edilizia privata in città. Da uno studio commissionato dall’assessorato all’urbanistica del comune, emerge che, nel 2006, il volume d’affari relativo all’edilizia residenziale è stato di 3 miliardi e 200 milioni di euro. Un miliardo e 700 milioni di euro, quello per l’edilizia commerciale.

Affare colossale
In totale quasi 10 mila miliardi di vecchie lire. La ricerca ha evidenziato un totale identico nei due anni precedenti e individua, per il 2007, una nuova e significativa crescita. Una “torta” particolarmente gustosa che ha suscitato l’interesse delle organizzazioni criminali: mafia, ’ndrangheta, camorra. «Anche se - come suggerisce il vice questore torinese Fulvia Morsaniga - oggi, quando si parla di criminalità organizzata, osserviamo un intreccio malavitoso tra organizzazioni diverse ed elementi criminali stranieri».

Holding criminale
Una holding del malaffare capace di radicare le attività tradizionali (droga, armi, racket, contrabbando, prostituzione) e, nel contempo, di investire i profitti in affari leciti. Attività lucrose e ideali per riciclare il denaro sporco. Speculare sull’attività immobiliare non è reato ma «Quando si piazza una bomba sotto casa di qualcuno per indurlo a vendere l’immobile, allora la “musica” cambia», considera il procuratore aggiunto di Torino Maurizio Laudi.

Intimidazioni
Il riferimento a fatti di cronaca accaduti di recente in città è immediato: l’ordigno di tritolo trovato davanti ad una carrozzeria in via Salerno, gli incendi dolosi in un’autorimessa in via Messina, in una ditta di Rivoli e in un’altra di Settimo Torinese. Fatti quasi sempre preceduti dalla visita di un “amico di un amico”: «Perchè non mi vendi la tua attività?».

Sviluppo della città
Segnali che suscitano preoccupazione: «Sarebbe un errore rallentare lo sviluppo - è l’opinione dell’assessore all’urbanistica del comune Mario Viano - ma non per questo bisogna abbassare la guardia. È necessario vigilare con attenzione». I sospetti che le organizzazioni criminali intendano entrare nell’affare più redditizio sono numerosi, lo rileva lo stesso procuratore nazionale antimafia Piero Grasso: «Dopo l’arresto di Lo Piccolo oggi, ciò che più mi preoccupa, è l’attività criminale della ’ndrangheta, specie quella relativa agli investimenti di denaro sporco nel nord Italia».

Lotta alla mafia
Un allarme condiviso dai colleghi magistrati impegnati nella lotta contro la criminalità organizzata che venerdì scorso si sono riuniti a Milano: «Mentre le mafie hanno perso la loro connotazione militare - hanno detto Maurizio Laudi e Alberto Nobili, sostituto procuratore a Milano - e nel silenzio si sono intrufolate nei circuiti finanziari, la giustizia italiana ha allentato la sua pressione. Negli ultimi anni - hanno proseguito i magistrati - si è assistito ad un minor impegno della politica nell’investire risorse per il contrasto della criminalità organizzata».
Ai due magistrati fa eco, dalla procura di Catanzaro, il sostituto procuratore Cristina Manzini: «La forza intimidatrice è uno dei requisiti - dice il pm, riferendosi agli ultimi fatti criminosi accaduti a Torino - che caratterizza il fenomeno mafioso sia sul piano criminologico che sociologico».

Omertà
Minacce, ricatti, intimidazioni che troppo spesso non vengono denunciati e che accrescono il potere e il controllo della mafia sul territorio e negli affari apparentemente leciti. Non va tanto per il sottile Pierpaolo Cambareri, giornalista, scrittore, esperto di ’ndrangheta: «Il mafioso che vuole acquistare un’attività o un immobile e riceve un diniego, prende dei provvedimenti. Una bomba, un incendio. Stanca fino allo svenimento, terrorizza fino a che ottiene quello che vuole, e ad un prezzo stracciato. È un classico».

Capitali sospetti
A Torino sta accadendo qualcosa del genere? Lo sospetta anche Francesco Zito, economista, esperto di finanza: «Questa è una città misteriosa, nonostante la crisi, il record di pignoramenti immobiliari, i mutui che la gente non riesce a pagare, si continua a costruire e a vendere tutto, e a tempi di record». Opinione condivisa dal presidente Atc Giorgio Ardito: «In città non c’è più un solo fazzoletto di terra da utilizzare per l’edilizia popolare, questo la dice lunga».

fonte Marco Bardesono http://torino.cronacaqui.it

venerdì 4 aprile 2008

Pensieri di Mario La Cava

1) “(A Bovalino) Manca un interessamento alla politica e non si può affermare che il paese migliori per merito dei suoi dirigenti. A dare un’idea della noncuranza dei suoi amministratori, basta rilevare che i fondi di due ospizi di mendicità in 50 anni e più da che sono stati costituiti, non hanno raggiunto ancora lo scopo per cui erano stati destinati. In cambio vi sono molte persone intelligenti con le quali si può parlare, senza guastarsi il sangue; vi sono dilettanti nelle arti e nelle lettere, molto esperti; e soprattutto vi sono in così gran numero caratteri singolari, proprio a migliaia, da far pensare che qui un La Bruyére avrebbe di che imparare: tanto che alcuni anni fa due scrittori Toscani, Giorgio Vigni e Alessandro Bonsanti, il primo venuto a conoscenza diretta del paese, il secondo in modo indiretto, avevano notato meravigliati la cosa. Per il resto, la persona dabbene in generale è lasciata in pace, senza quegli odi forsennati degli altri paesi che rendono la vita difficile. Qui, né durante il Fascismo né con l’Antifascismo è successo nulla di grave. Siamo tutti amici, e una reciproca tolleranza è la bandiera che ci distingue.”


2) “…aspettavo il ritorno del padrone della vecchietta dalla campagna. Costui era un proprietario di tipo medio, uno di quelli in Calabria la cui vita è modesta e che tale pensava di dovere restare. Poteva per questo concedere alla vecchina di vivere in pace gli ultimi suoi giorni nel fondo che il marito per tanti anni aveva coltivato, senza pretendere una coltivazione accurata. Gli parlo e mi dice: «Hai fatto bene a avvertirmi. Provvederò a vendere subito le pecore. E quando andrà l’ufficiale giudiziario a pignorare, troverà un bel nulla. Che le venda il letto? Altro non ha! Il letto non glielo venderà…» «Va bene – risposi – Ma come vivrà la donna, senza il guadagno dell’allevamento?» «Per questo si… Però il veterinario avrebbe potuto fare a meno di denunziare tanta povera gente! Sono centocinquanta i denunziati… Il guaio è che si dovrebbe andare ad Ardore per stendere l’opposizione, se si facesse a tempo… Chi vuoi che vada ad Ardore?» «Ha detto che non l’avevi avvertita…» «Forse è vero: ma ella avrebbe dovuto saperlo… Chi mai ci avrebbe pensato? Facciamo così: non credo che le vadano a vendere subito le pecore. Appena potrò, andrò a trovare Pietro, il vicino, e mi metterò d’accordo con lui che si dichiari, in caso di necessità, proprietario delle pecore al posto della colona. Ella dirà che è una semplice guardiana; e quando gli ufficiali cercheranno di acciuffare le pecore, salterà fuori Pietro, il vicino. Altro non avranno da prenderle. Col tempo si dimenticheranno di lei…» «Forse è la soluzione migliore!» dissi; e per quella sera, dopo aver complottato da buon Calabrese l’imbroglio da tendere allo stato, per fare un’opera buona, ritornando a casa ebbi il cuore tranquillo.”

di Andrea Radosta