lunedì 11 febbraio 2008

GIUSEPPE TARDIO

Giuseppe Tardio agì nel Cilento tra il 1862 ed il 1863. Originario di Piaggine, ma vissuto a Campora era un uomo molto colto, infatti si era laureato nel 1858, a 24 anni, presso il Reale Liceo di Salerno. Dopo aver preso contatti a Roma con il comitato borbonico si imbarcò da Civitavecchia con trentadue uomini e sbarcò ad Agropoli per fare il capo-brigante anzi "il capitano comandante le truppe borboniche", come lui stesso si definiva. A questo gruppo di uomini se ne aggiunsero molti altri, la banda superò di gran lunga le cento unità. Tardio iniziò così la sua opera di sommossa popolare contro il "tirannico e fazioso dispotico regime Sabaudo" proprio da Agropoli e continuando per molti altri centri del Cilento, quali Centola, Foria, Camerota, Celle di Bulgheria, Novi Velia, Laurito, Vallo della Lucania ed altri ancora, a Futani disarmò l'intera guarnigione della Guardia Nazionale. Nei paesi da lui occupati si distruggevano i monumenti, le litografie gli stemmi reali e quant'altro potesse essere riferito al regime sabaudo o a Garibaldi, poi alla folla (che in genere lo accoglieva con simpatia) lanciava dei proclami, invitando i cittadini a schierarsi sotto il vessillo del "leggittimo sovrano Francesco II" e ad insorgere contro il tiranno subalpino che aveva ridotto la "seconda valle dell'Eden" (così definiva il Cilento) a "triste contrada di provincia" angariata da tributi e rendendo il popolo nelle condizioni simili ai quelle dei "barbari del settentrione del Medio Evo". Verso la fine del 1863 presso Magliano grande la sua Banda venne annientata da un attacco congiunto dei Carabinieri e della Guardia Nazionale e di lui si persero le tracce, fino a quando tradito da un suo concittadino, venne arrestato nel 1870; al processo scrisse una sua memoria difensiva in cui diceva: "io non sono colpevole di reati comuni poiché il mio stato, il mio carattere e la mia educazione non potevano mai fare di me un volgare malfattore; io non mi mossi e non agii che con intendimenti e scopi meramente politici; talché non si potrebbe chiamarmi responsabile di qualsivoglia reato comune che altri avesse per avventura perpetrato a mia insaputa contro la espressiva mia volontà e contro il chiarissimo ed unico scopo per cui la banda era stata da me radunata". Venne condannato a morte, ma la pena fu poi trasformata in lavori forzati a vita, morì a 58 anni avvelenato in carcere da una donna, se ne ignora il motivo.

Giuseppe TARDIO: studente brigante che comandava nel Salernitano una comitiva. Giovane di agiata famiglia che, dopo un viaggio a Roma ed i contatti con il Comitato Borbonico, tornò in paese per fare il capobrigante nel Cilento. Con la sua banda di circa 100 uomini fece irruzione in Agropoli, Laurito, Centola ed altri centri, disarmò la Guardia Nazionale di Futani. Nonostante fosse stato ferito ed avesse avuto un gran numero di morti nel suo gruppo, Tardio non desistette, si spostò nel Vallo di Diano e devastò case e poderi di liberali. Gli sbandati lo seguivano a valanghe. Fu attivissimo agitatore e trascinatore per tutto il 1862 e parte del 1863, fino all'attacco definitivo che gli fecero Carabinieri e Guardie Nazionali a Magliano Grande. Di Tardio si perdette ogni traccia, forse emigrò. Ma non fu il solo studente che combatté i piemontesi. Almeno altri due studenti furono accaniti combattenti contro i piemontesi, come risulta da un processo del 1864 citato dal Molfese. Tardio lanciava proclami "ai popoli delle Due Sicilie" incitandoli a schierarsi "sotto il vessillo del legittimo sovrano Francesco II contro il fazioso dispotismo del subalpino regime" firmandosi, "Capitano comandante le armi Borboniche"; non soltanto emanava proclami ma anche ordini di pagamento, talvolta eseguiti dalle autorità municipali.

fonti wwwbrigntaggio.net

Pietro Monaco

MARIA OLIVIERO DETTA CICCILA MOGLIE DEL BRIGANTE MONACO FU LA CAPOMILITARE DELLA SUA BANDA DOPO L'ASSASSINIO DEL MARITO, PER ECCELLENZA TRA TUTTE LE DONNE DEL BRIGANTAGGIO FU LA PIU' COMBATTIVA
VEDI http://it.youtube.com/watch?v=eO5nwpCpp-A




Pietro era un sottufficiale borbonico che, all'arrivo di Garibaldi, aveva disertato abbracciando la causa della rivoluzione. S'era arruolato col biondo liberatore e aveva combattuto, pare bene, guadagnandosi anche le spalline di sottotenente durante l'assedio di Capua. Ignoriamo quale particolare atto di valore compisse Monaco durante quell'episodio di guerra che non diede a nessuno dei contendenti occasioni di eroismo. Ricordiamo che Capua fu investita il primo novembre 1860 dal V Corpo dell'esercito italiano. Nel pomeriggio di quel giorno le artiglierie cominciarono a battere la città e il bombardamento durò molte ore, provocando incendi e vittime fra la popolazione civile. Gli abitanti rumoreggiando chiesero ai comandanti borbonici - capo di stato maggiore della piazza era quel capitano Tommaso Cava de Gueva di cui abbiamo citato gli scritti - che cessasse ogni resistenza. E Capua si arrese. Pietro Monaco, comunque, era un animoso: se combattè coi liberatori con lo stesso coraggio con cui fece il brigante, certamente si distinse. Ma l'avventura unitaria fu breve e deludente. Come tanti altri volontari, l'ex sergente borbonico fu smobilitato, emarginato, diventando di colpo disoccupato e sospetto alle nuove autorità. Era tornato a casa pieno di rancori e s'era impelagato nella lotta politica locale, fatta di contrasti fra clan disposti ad indossare tutte le casacche pur di arraffare potere nei paesi. Scivolato in una brutta storia di vendette e di offese, Pietro uccise un possidente di Serrapedace, piccolo centro alle falde della Sila, e dovette darsi alla macchia. Dopo poco tempo, era a capo di una comitiva di sbandati e di ribelli, era brigante. La sua guerra non ebbe alcun obiettivo politico preciso, né si collegò direttamente ai tentativi di restaurazione borbonica operati in altre zone del Mezzogiorno: fu una lotta, ben nota da secoli a molti calabresi, contro baroni e galantuomini che, in questo caso, s'erano schierati non disinteressatamente coi nuovi governanti. E naturalmente questa lotta faceva gioco ad altri baroni e ad altri possidenti che, per motivi diversi, col nuovo ordine non s'intendevano. Per capire la guerra di Pietro Monaco bisogna conoscere la Sila, aspra, fatata e boscosa che un insondabile disegno ha fatto sorgere su una terra circondata da un mare tiepido. La Sila, prima che la riforma agraria dei tempi nostri l'ingrigisse, era ricca di mandrie, abitata secondo il ritmo delle stagioni da caporali delle vacche, carbonai e contadini caparbi e parchi che la sfruttavano magari senza il ritegno e la pazienza che gli ecologi di oggi avrebbero usati. Il bisogno non è un buon consigliere. Era una montagna solenne e dura, bellissima e ricca. Sì, ricca, almeno secondo i metri di valutazione del tempo andato: oggi le montagne appaiono buone soltanto per gli albergatori e i turisti, ma una volta non era così. La Sila era amata e difesa, soprattutto dai contadini senza proprietà ai quali il regime demaniale di gran parte di quella terra garantiva il diritto di sfruttamento. Ma proprio per questo la storia della Sila è una storia di rivolte e di usurpazioni, di boschi e di pascoli contesi da baroni e contadini. Una vertenza secolare che periodicamente finiva davanti ai giudici, spesso davanti al giudice supremo, che era il re. I baroni tendevano ad usurpare le zone demaniali, i contadini difendevano il diritto di fare legna e di coltivare. La storia giudiziaria del regno di Napoli è piena degli scartafacci con cui le "università", le comunità, silane si opponevano alle pretese dei feudatari. Ma per scrivere quelle carte bisognava trovare gli avvocati, pagarli soprattutto, avere pazienza e fiducia nei giudici. E giudici e avvocati quasi mai erano dalla parte dei cafoni, i quali conoscevano anche sistemi più spicci per regolare le questioni. Accadeva così che spesso le carte legali lasciassero il posto alle fucilate. La vita nei borghi era avvelenata da faide, soprusi, violenze. Anche per questo il brigantaggio nella zona era endemico: i Borboni nel 1845 avevano istituito le corti marziali per gli "scorridori di campagna" e nel '47 avevano inviato il generale Statella a dirigere la represione della guerriglia contadina. Nel '49 era stato mandato il maresciallo Ferdinando Nunziante col potere di dichiarare lo stato d'assedio che di fatto, in alcune zone della Calabria, cessò soltanto nel '52. Ma nel '59, quando il regno era vicino alla fine, Francesco II aveva dovuto mandare in Calabria il generale Emmanuele Caracciolo di San Vito col potere di nominare consigli di guerra per giudicare i briganti. Il crollo dei Borboni aveva creato quindi una situazione di disordine e incertezza nella quale il brigantaggio divampò con rinnovata violenza: tutto il Sud era in rivolta, la stagione era propizia per regolare i conti sospesi. La fine del regno scatenò gli appetiti: era il momento di accaparrarsi le terre demaniali e quelle ecclesiastiche e chi poteva concorrere alle aste se non i vecchi baroni e i nuovi protagonisti, i "galantuomini"? I moti contadini scoppiarono- anche per questo, non sarebbero bastate le sobillazioni dei borbonici e del clero. Per molti briganti calabresi può valere la morale che si trae da un episodio riferito dallo storico Franco Molfese. Eccolo. Un avvocato fu sequestrato da una banda di briganti campani e, per ingraziarseli e convincerli a rilasciarlo, cominciò a vantare il suo borbonismo, l'attaccamento alla spodestata dinastia. Un brigante lo ascoltò per un poco, quindi tagliò corto, dicendogli: "Tu sei avvocato, sei un uomo istruito, pensi veramente che noi fatichiamo per Francesco II?". Ebbene, i briganti della Sila combattevano per se stessi, contro i nemici di sempre, e facevano la guerra contro i soldati per legittima difesa, ma anche perché i soldati rappresentavano un regime che appariva oggettivamente schierato contro i pastori e i contadini, un regime fatto su misura per i "galantuomini" accaparratori. Cominciarono a tirare sui bersaglieri con lo stesso spirito con cui avevano tirato sui soldati e sulle guardie urbane del Borbone. La banda di Pietro Monaco fu abbastanza numerosa, anche se non raggiunse mai le dimensioni di quelle di Crocco o di Chiavone. I capibanda calabresi collaboravano fra loro, ma non cercarono mai di centralizzare il comando delle forze; individualisti e sospettosi l'uno dell'altro applicavano fino in fondo il vecchio proverbio calabrese che dice: "Miegghiu cap'i licerta ca cud'i liuni" (meglio testa di lucertola che coda di leone). Gli obiettivi non erano direttamente i reparti militari, coi quali comunque si doveva fare a fucilate, quanto i possidenti e i loro servi armati, squadriglieri da quattro carlini al giorno, sempre ambigui, in equilibrio instabile e sospetto fra i briganti, gente del loro mondo, e i padroni che pagavano poco e tardi, dopo avergli fatto allungare il collo, ma pagavano. Pietro Monaco - descritto da Michele Falcone, un sequestrato che ebbe modo di osservarlo da vicino per molto tempo, come "tarchiato della persona, bruno di volto e di pelo, con occhi fieri e incavati che ispiravano diffidenza ed orrore,— attaccava masserie isolate, scannava greggi intere, metteva taglie sui proprietari. Ciccilla (su Maria Oliviero vedi video youtube di pedritoya) se ne stava a casa, in paese, dove il marito rientrava spesso. La latitanza era facile, c'erano i manutengoli, i galantuomini disposti ad aiutarlo. Marianna un giorno si accorse che il marito guardava, durante i periodi che trascorreva a casa, con troppo interesse la cognata. Marianna non ebbe dubbi e una notte, con trenta colpi di scure, come lei stessa ebbe poi a confessare, uccise per gelosia la sorella. Pietro, che probabilmente avrebbe preferito lasciarla a casa, dovette per forza portarla con sè, non poteva abbandonarla alla giustizia. Quei trenta colpi di scure, poi, erano un chiaro indizio di predisposizione alla vita brigantesca. Cosi Marianna alias Ciccilla smise la gonna e indossò la tenuta del fuorilegge, giubba coi rever decorati da monete usate come bottoni e calzoni di velluto, che in più occasioni la fecero scambiare per "un imberbe e biondo giovinetto". Tutti coloro che ebbero a che fare con lei non accennarono mai a una particolare ferocia, a una morbosa violenza del carattere, mentre del marito molti sottolinearono la spietatezza, compreso quel Michele Falcone il quale scrisse che Pietro Monaco "nella ferocia dell'indole ritraeva moltissimo Fra Diavolo, il fido amico di Carolina d'Asburgo". Ma Michele Falcone non era obiettivo e pagava il suo scotto di galantuomo acculturato alle mode politiche e letterarie dell'epoca. Come vivevano i briganti? Si prendevano qualche soddisfazione, ma la loro vita era dura. Dormire con un occhio solo, spesso all'addiaccio, muoversi sempre, camminare, cavalcare, col fucile che diventa il naturale prolungamento del braccio, dare morte e aspettarsi la morte. Senza pace, una giostra violenta fra boschi e fiumare, muoversi a primavera e in estate, quando i giorni sono lunghi e caldi, quietarsi in inverno, come le serpi, nelle capanne misere dei carbonai, ma sempre col duebotte fra le ginocchia. Mangiare e bere, certo, cavarsi la fame, una fame stagionata, più vecchia di loro, banchettando con le pecore dei signori che loro e i loro padri per anni avevano guardato senza poterle toccare. Bevevano il vino nero e aspro (ma qualche manutengolo mandava il rosolio) e usavano le loro donne senza vezzi, contadine ardite che soltanto da brigantesse si levavano, anche loro, qualche sfizio. Di denari ne maneggiavano tanti, ma ben poco rimaneva attaccato alle loro dita. L'arte di tenere i soldi è da "civili", presuppone una collaudata consuetudine con l'oro; i briganti scialavano per una breve stagione, sapevano che una palla prima o poi li avrebbe fermati. C'erano anche i manutengoli da ungere, la gente che faceva arrivare in campagna - rischiando grosso - armi e polvere, tabacco, notizie. Ma l'ebrezza di quella vita raminga era costituita dal potere. Quanto valeva la morte di un nemico odiato intensamente per anni? Che prezzo dare alla sottomissione di un piccolo don Rodrigo di paese? Questa era la droga dei briganti, la sensazione inebriante di poter creare e applicare, lì e in quel momento, l'unica legge. Dopo, ma soltanto dopo, sarebbero giunti i bersaglieri, gli squadriglieri e la morte. Amen. Al fondo della morale dei ribelli c'è una disperazione senza fine, la convinzione che nessun regime assicurerà quella giustizia giusta che ai cafoni serve più del pane. E se si deve scegliere fra i governanti antichi e nuovi, meglio il vecchio re, sospettoso dei galantuomini e dei baroni, il vecchio re pacioso degli aneddoti napoletani - Francesco II era giovane, ma quel che conta è l'archetipo del regnante borbonico - che quello nuovo, tutto sciabole e speroni e squilli di tromba e scariche di fucileria. Viva lu rre, quello loro, quello della Sila regia e della dogana delle pecore, e viva la Madonna del Carmine, perdio! Torniamo a Ciccilla e alla sua banda. Pietro Monaco in poco tempo diventò noto e temuto e vide aumentare il suo prestigio quando, nel dicembre del 1862, un brigante pentito, Giuseppe Scrivano, d'accordo con un suo parente capo di una squadriglia, il famoso Rosanova, tentò di ucciderlo. Scrivano - che poi, sempre facendo il doppio gioco, finì sparato per sbaglio dai bersaglieri - gli tirò, ma lo ferì soltanto. In Calabria, allora, gli infami non erano amati e il tradimento mancato servì alla leggenda di Pietro Monaco, al mito della sua invulnerabilità. Ma l'ex sergente borbonico preparò da sè la sua fine quando decise di sequestrare alcuni membri di una ricca famiglia di Acri, i Falcone. Fece il colpo nel settembre del 1863 (insieme con i Falcone sequestrò anche il vescovo di Nicotera e Tropea, De Simone, e un canonico che poi furono rilasciati), ma inseguito da truppa e squadriglieri dovette portarsi dietro gli ostaggi per due mesi. La famiglia Falcone (schierata col nuovo regime: uno dei giovani era caduto a Sapri e altri membri erano, subito dopo l'unità, organizzatori e comandanti della Guardia nazionale impegnata nella lotta alle bande) in più rate pagò 16 mila ducati, oltre ad armi e orologi d'oro, e avrebbe pagato anche di più se i sequestrati, approfittando di uno scontro a fuoco fra briganti e truppa, non fossero riusciti a fuggire. Comunque, i Falcone a Monaco la giurarono e fecero sapere in giro che avrebbero ben pagato chi gli avesse portato la testa del brigante. Nel dicembre di quello stesso 1863, Marrazzo, Celestino e De Marco, uomini della banda Monaco, si presentarono a casa Falcone e dissero che, se gli fosse stato fornito del veleno, avrebbero assassinato il capo. E indicativo che scegliessero subito l'arma delle femmine, non se la sentivano di alzare la mano contro Pietro. I Falcone gli diedero della stricnina, ma il colpo andò a vuoto, i tre cafoni non seppero avvelenare l'acqua. I traditori, quindi, dovettero passare a metodi più spicci e una notte tirarono due colpi mortali a Pietro Monaco addormentato in un pagliaio. Contemporaneamente spararono a Ciccilla, che rimase ferita a un braccio, e uccisero un altro uomo della banda, Giacomo Madeo. A questo brigante tagliarono la testa che, per molti giorni, fu esposta nel punto in cui i Falcone erano stati sequestrati. Ciccilla però non si arrese. Assunse il comando della banda e tenne la campagna per altri 47 giorni, fino a quando, circondata dalla truppa, dovette arrendersi. E furono questi 47 giorni a procurarle la fama. Sulla sua fine si hanno notizie discordanti. Secondo un'annotazione manoscritta sul retro di una fotografia segnaletica, Ciccilla fu condannata a morte e fucilata, secondo un'altra annotazione le furono inflitti quindici anni di galera. Gli assassini di Pietro Monaco furono portati in trionfo per tutti i paesi della Sila e le autorità invitarono i proprietari a fare una colletta per i "pentiti". Una procedura barbara, che fece scalpore e provocò la reazione delle autorità centrali. Marrazzo, Celestino e De Marco furono quindi arrestati e processati, ma la condanna fu mite.

wwwbrigantaggio.net

sabato 9 febbraio 2008

FU PULIZIA ETNICA?

Una pagina non è stata scritta dalla storiografia conformista, appiattita sulle versioni ufficiali dei "vincitori", la pagina relativa alle carceri in cui furono rinchiusi i soldati "vinti". Questa pagina l'ha scritta recentemente Fulvio Izzo pubblicando "I Lager dei Savoia" (1999). Si fece grande rumore quando lord Gladstone pubblicò nelle sue lettere e relazioni da Napoli le condizioni delle prigioni, certamente non buone. Ma Gladstone, che scriveva per incarico di Lord Palmerston, il quale a sua volta aveva un interesse politico, scriveva per sentito dire, riferendo ed amplificando quanto gli era stato raccontato da prigionieri politici che avevano in odio i Borbone, e le sue relazioni fecero definire il regime borbonico "negazione di Dio". A nulla valse che egli successivamente scrivesse che non era stato in nessun carcere e nessun ergastolo e che "aveva dato per veduto quello che gli avevano detto", a nulla valse la confutazione che fu fatta con la "Rassegna degli errori e delle fallacie pubblicate dal signor Gladstone" uscita immediatamente dopo le relazioni, nel 1851. I vinti e gli oppositori, ieri come oggi, non hanno diritto di parola; se parlano o scrivono, vanno coperti dal silenzio ostile. Certamente il governo dovette affrontare improvvisamente un problema vasto e complesso con i prigionieri, 1700 ufficiali dell'esercito borbonico e 24000 soldati, senza contare quelli che ancora resistevano nelle fortezze di Gaeta, Messina, e Civitella del Tronto. Ma affrontò il problema con la durezza piemontese, con la boria del vincitore, non con la "pietas" che sarebbe stata più utile, forse necessaria. Ci fu un trattamento duro e spietato che questa volta non trovò nessun Gladstone con un megafono amplificatore. Un tentativo di risolvere il problema fu fatto con il decreto 20 dicembre 1860 e la chiamata alle armi degli uomini che sarebbero stati di leva negli anni 1857, 1858, 1859, 1860 nell'esercito delle Due Sicilie, e fu un fallimento. Si sarebbero dovuti presentare 72.000 uomini, se ne presentarono 20.000. A migliaia questi uomini furono prima concentrati nei depositi di Napoli o nelle carceri, poi trasferiti nei depositi di Genova, Alessandria, Milano, per il decreto 20 gennaio 1861 che istituì "Depositi d'uffiziali d'ogni arma dello sciolto esercito delle Due Sicilie". Poi furono istituiti due veri e propri campi di concentramento, uno a Fenestrelle ed un altro a San Maurizio. Il forte di Fenestrelle era stato costruito da Vittorio Amedeo nei primi anni del 700, sulla sinistra del Chisone. Più che un forte, era un insieme di forti, protetti da altissimi bastioni e uniti da una scala, scavata nella roccia, di quattromila gradini. Era una ciclopica cortina bastionata cui la naturale asperità dei luoghi e il rigore del clima conferivano un aspetto sinistro. Faceva tanto spavento come la relegazione in Siberia, ed ebbe a provarla il Cardinale Pacca prigioniero di Napoleone. Non era più gradevole il campo impiantato nelle "lande di San Martino" presso Torino per la "rieducazione" dei militari sbandati, rieducazione che procedeva con metodi di inaudita crudeltà. Così, in questi luoghi terribili i fratelli "liberati" venivano rieducati e tormentati dai fratelli "liberatori"! Vi arrivavano, i "liberati", laceri, cenciosi, affamati, affaticati. Altre migliaia di "liberati" venivano confinati nelle isole, Gorgona, Capraia, Giglio, del tutto inospitali, all'Elba, Ponza, in Sardegna, nella Maremma malarica. Fu "pulizia etnica", come si dice oggi con ipocrita neologismo. In Parlamento si facevano molte polemiche, molte discussioni, anche aspre, ma nulla si diceva per questi infelici, neppure dai deputati meridionali, soggiogati dal mito sabaudo. Solo Francesco Proto Carafa duca di Maddaloni gridava: "Ma che dico di un governo che strappa dal seno delle famiglie tanti vecchi generali, tanti onorati ufficiali solo per il sospetto che nutrissero amore per il loro Re sventurato, e rilegagli a vivere nelle fortezze di Alessandria ed in altre inospiti terre del Piemonte... Sono essi trattati peggio che i galeotti. Perché il governo piemontese abbia a spiegar loro tanto lusso di crudeltà? Perché abbia a torturare con la fame e con l'inerzia e la prigione uomini nati in Italia come noi?" Ma della mozione presentata non fu autorizzata la pubblicazione negli Atti parlamentari, vietandosene la discussione in aula. Era la politica del silenzio! Era la criminalizzazione del dissenso, il rifiuto di ammettere l'esistenza di valori diversi dai propri, il rifiuto di negare ai "liberati" di credere ancora nei valori in cui avevano creduto. Si volle trarre pretesto dall'operato di autentici malfattori per confondere soldati, contadini, operai, braccianti, proscritti, sotto l'unica denominazione di "briganti", si accomunarono ai briganti i soldati di un esercito sconfitto e gli scontenti di una situazione nuova, con lo stesso nome di "reazionari"

FONTE www.brigantaggio.net

LA BORBONICA GUERRA PER BANDE

" Viva 'o re" fu il grido con cui i reggimenti napoletani del "felicissimo Regno delle due Sicilia" usavano andare all'assalto.

Questo grido risuonerà rauco e disperato nelle terre del Sud anche dopo l'annessione al Regno d'Italia. A gridarlo saranno bande di irregolari, per lo più ex soldati dell'esercito borbonico, che non intendono arrendersi.
Sono i romantici disperati dell'ultima barricata, malgrado tutto sia irrimediabilmente perduto. Per essi non ci sarà né onore né gloria, ma soltanto una crudele guerra per bande.

" Brigantaggio" lo chiameranno sprezzantemente i Piemontesi. E con il termine "briganti" i legittimisti saranno consegnati alla Storia. Il "vae victis" di Brenna non è soltanto un aneddoto storico, è una costante nella storia dell'umanità. I vinti passeranno alla storia sempre e soltanto attraverso le pagine scritti dai vincitori e dovranno sempre giustificare il perché si siano battuti "per la parte sbagliata".

Dunque, briganti ! Dopo averli massacrati si cercò quindi di liquidarne definitivamente la memoria storica con la taccia infamante di essere banditi da strada. Per questi motivi l'ossequiente storiografia ufficiale ha sempre etichettato per il passato, salvo rare e lodevoli eccezioni quali un Alianello e la sua "Conquista del Sud", ricca di spunti di riflessioni, con lo spregevole termine di "brigantaggio" quel decennio di storia italiana delle provincie meridionali, che seguì alla caduta del Regno delle Due Sicilie.

Eppure in quel complesso fenomeno politico-militare si riversò di tutto. Da certo brigantaggio vero e proprio, secolare male endemico per le nostre contrade, alla resistenza popolare di fronte ai "diversi" Piemontesi, che avevano portato tra l'altro nuove e pesanti tasse e l'odiosa coscrizione obbligatoria, per finire all'idealismo di giovani ufficiali e soldati dell'ex esercito borbonico, irriducibili innamorati, "patuti" con voce popolare, della bianca bandiera gigliata, a cui un giorno avevano giurato eterna fedeltà.

In questo esplosivo, e a volte sanguinoso, cocktail, accanto ad avanzi di galera e grassatori analfabeti, che non poche volte però riscattano il proprio passato con una morte onorevole, si riscontrano luminose figure di veri e propri "combattenti politici". Sono quest'ultimi a dare il sapore di epopea popolare alla sudista guerra per bande.
Essi non hanno letto né tantomeno studiato Clausewitz, ma la guerra o per meglio dire la guerriglia sanno farla. E bene anche. Molti capibanda legittimisti si fanno ripetutamente beffa dei migliori strateghi avversari.
Questa volta i meridionali si battono bene, li guidano capi decisi e non titubanti traditori. Viene così smentita clamorosamente la diceria che i Napoletani siano "cattivi e vili combattenti". D'altronde i Piemontesi se ne
sono già accorti alla sanguinosa battaglia del Volturno, quando l'armata di Francesco II ha dimostrato di non essere un esercito di parata o da operetta. Le migliaia di morti e feriti d'ambo le parti, contati dopo la
cruenta battaglia, testimoniano che ai Napoletani è mancata la fortuna non il valore.

Anche la guerriglia esige un altissimo tributo di lacrime e di sangue. Da tutti, dai legittimisti e dagli "invasori", ma soprattutto dalle popolazioni meridionali, che parteggiano in maggioranza per i primi.
I capi delle bande, dai soprannomi impossibili, quali solo la fantasia popolare può inventare (Pizzichicchio, Cicquagna, Pirichillo, Coppa, Diavolillo, Pilone, etc), provengono nella quasi totalità dai quadri del disciolto esercito borbonico. Dunque soldati del re ancora in armi, malgrado il " tutti a casa", che segue fatalmente ad ogni definitivo tracollo militare. Essi sono capi amati e rispettati, e perché no temuti, ma sempre per libera scelta da parte di tutti gli altri componenti. La scelta, trattandosi di formazioni volontarie, ricade sempre, e non può essere altrimenti, sui più abili, determinati e coraggiosi.

Lo spontaneismo che si osserva nella strutturazione delle bande non significa assolutamente anarchia. Come ogni vero gruppo di combattimento che si rispetti, in esse regna una ferrea disciplina militare, cosa d'altronde più che logica in quanto ne va della sopravvivenza stessa dei componenti.
Disciplina e organizzazione militare più che efficienti, come hanno riconosciuto rigorosi storici, che non si può certo accusare di essere corrivi al fascino del "mito sudista". Dell'esistenza di questa rigida disciplina ne sono prova le pagine del diario scritto dal Sergente Romano, alias Pasquale Domenico Romano, Primo Sergente ed Alfiere nella I Compagnia del V Reggimento di linea borbonico. Uno dei migliori capibanda, che
scorrazza con i suoi 500 uomini a cavallo nelle pianure pugliesi.

Gli stessi storici sono stati costretti ad ammettere che la tanto vituperata "ferocia sanguinaria" dei cosiddetti briganti è dovuta alle piccole bande di malfattori, che vivono come parassite ai margini delle grandi bande
legittimiste. Formate per lo più da delinquenti comuni, approfittano del caos di quei tempi burrascosi per meglio perpetrare i loro delitti, ammantandoli di una falsa coloritura politica.
Le razzie, i saccheggi, le uccisioni e i sequestri compiuti anche dalle bande legittimiste rispondono quasi sempre alle tragiche necessità della guerriglia e dell'autofinanziamento.
Il segreto del successo per cui i ribelli tengono per così lungo tempo in scacco notevoli forze avversarie sta nella perfetta conoscenza del terreno, nella loro straordinaria mobilità, nella copertura, che spesso rasenta la complicità, delle popolazioni. Non solo le montagne e i boschi, luoghi naturalmente elettivi per ogni forma di guerriglia, sono teatro delle loro gesta. Anche in campo aperto, come le vasti distese della Puglia, i legittimisti dimostrano un buona padronanza della tattica militare, tanto da impegnare in combattimenti frontali interi reparti della cavalleria sabauda, tra i quali i lancieri di Montecelio e i Cavalleggeri di Saluzzo.

La carta decisiva e vincente della mobilità fa sì che il combattente legittimista viva praticamente sempre in marcia. Spesso egli, per più giorni, forma un tutt'unico con la propria cavalcatura, bardata con la doppia bisaccia, in cui trovano posto i pochi viveri e le preziose munizioni. Non è eccezionale per le bande percorrere senza soste, in solo dodici ore e di notte, anche 50 miglia su terreno impervio. Se al frugale
desinare e al poco riposo, aggiungiamo il clima inclemente e rigido, che nella stagione invernale investe le zone montuose interne del Meridione, ci si rende conto quale tempra di uomini fossero i combattenti filo-borbonici.
E si capisce del perché fosse necessario anche una dura disciplina e la presenza di un capo carismatico, riconosciuto spontaneamente per tale da tutti, per superare, senza gli inevitabili sbandamenti e diserzioni, i molti momenti di stanchezza e di sconforto. Ma soprattutto si capisce quale genuina idealità animasse il grosso delle formazioni ribelli.
La flessibilità del numero degli elementi formanti una banda è un'altra caratteristica degna di menzione. Al nucleo originario, che costituisce lo zoccolo duro della resistenza, si aggrega nella stagione propizia,
soprattutto nei primissimi anni successivi al 1860, altra gente, contadini quasi sempre, che fanno bravamente la loro guerra contro i nemici di re Francesco.

Malgrado le inevitabili rivalità esistenti tra di loro, non sono poche le volte in cui diverse bande si concentrano in un'unica grossa forza da battaglia per colpire più duramente il nemico. Raggiunto lo scopo, ci si disperde rapidamente, riformando i gruppi originari. Normalmente la tecnica di combattimento è quella di sempre della guerriglia. Imboscate, attacco ai fianchi di colonne in marcia, rapide incursioni con ancor più rapide ritirate sulle montagne.
Come tutti i combattenti irregolari i legittimisti non hanno una vera e propria divisa, anche se qualcuno indossa ancora orgogliosamente qualche vecchio e lacero capo della divisa dell'ex reggimento borbonico in cui ha militato. Quasi tutti però portano il cappello nero a larghe tese ornato da un nastro rosso. I capibanda più famosi ostentano sul petto le onorificenze concesse dal sovrano borbonico in esilio. Anche le bandiere di combattimento sono le più diverse e fantasiose. Accanto all'immancabile ed amata bianca bandiera gigliata, sventolano colorati stendardi con diafane figure di santi protettori e di bellissime madonne.
Nella sudista guerra per bande anche la fede va in battaglia.

di Orazio Ferrara

(Tratto dal libro dello stesso autore Viva 'o Rre. Episodi dimenticati della
borbonica guerra per bande - Centro Studi I Dioscuri, 1997, vincitore 2°
posto saggistica politica del Premio Internazionale Letterario Tito Casini
di Firenze Edizione 1997)

sabato 2 febbraio 2008

La «Chanson d’Aspremont»

Anche l'Aspromonte ha la sua "chanson de gestes" : la «Chanson d’Aspremont» che si ricollega alla «Chanson de Roland» .

E a sfatare il mito che i poemi epico-cavalIereschi di chiaro stampo carolingio fossero di chiara pertinenza della catena montuosa dei Pirenei è stata la preside dell’Istituto Magistrale professoressa Carmelina Sicari che ha relazionato sull'opera letteraria . La <> assume anche dei significati esoterici visto che fu recitata di fronte all’Aspromonte nell’inverno 1190-91 per i crociati di Riccardo Cuor di Leone e di Filippo Augusto e nella stessa ballata si fa menzione di una santa croce portata dall’arcivescovo Turpino la quale, nel momento culminante della battaglia, emana fino al cielo una luce fiammeggiante, mettendo lo scompiglio nelle schiere saracene; così come si fa menzione di un’abbazia fondata dal duca Girart per seppellirvi i morti. Tutto ciò fa avanzare alcune ipotesi che il sito religioso potrebbe essere l’attuale abbazia aspromontana di Polsi dove, prima del culto mariano, si praticava il rito della Santa Croce. Ed altri riferimenti si hanno nella mezzaluna con cui termina l’estremità superiore della Croce di Polsi (la stessa modalità figurativa appare, accanto alla croce, in sigilli dell’Ordine iniziatico dei Templari) . Una mezzaluna, posta sopra la testa di Cristo, si trova anche nella Croce processionale d’argento di S.Marco Argentano (nella provincia cosentina), forse donata da Federico II all’abbazia di S.Maria della Matita ed i legami del sovrano con i Tempalri sono abbastanza noti (tra l’altro una svastica di epoca sveva è scolpita nel portale gotico della Chiesa di S.Francesco a Gerace ) . Altri elementi di particolare interesse sono da annotare nella figura di S.Giorgio, il cui culto risultava particolarmente vivo anche durante il periodo bizantino (come viene menzionato da un’amuleto bizantino proveniente dal monastero basiliano di Calanna e conservato presso il Museo Nazionale della Magna Grecia di Reggio Calabria : esso è il patrono della città della Fata Morgana (sorella di Re Artù e quindi elemento che si trova anche nelle leggende bretoni) . San Giorgio avrebbe supportato anche Ruggero il Normanno nella battaglia del 1088 che sancì la sconfitta dei Saraceni e la loro cacciata dalla città reggina : gli abitanti della città dello Stretto lo effigiarono nel loro stemma civico a cavallo nell’atto di uccidere il drago (il nemico).
Secondo Domenico Rotundo in «La "Chanson d’Aspromont": leggenda o realtà?» (pubblicato in Calabria Sconosciuta 1979, n. 5 pagina 78) sostiene l’ipotesi che nello stemma reggino siano raffigurati due episodi relativi alla vicenda d’Aspromonte entrambi decisivi per la storia
della città: la vittoria della cavalleria cristiana, guidata da S.Giorgio sugli Arabi, e la conversione al Cristianesimo della regina saracena di Reggio, la vedova di Agolant, che era rimasta nella grande torre del Castello aragonese . La ballata, facente parte del ciclo carolingio, fu composta durante la terza crociata, quindi in ambito normanno. I Normanni che si sentivano gli eredi e continuatori di Carlo Magno, intendevano tracciare una loro epopea come difensori della fede e della terra . Il poema in ottave ha subito diversi rifacimenti e veniva narrata dai cantori medievali e la Sicari ha rintracciato il testo del poema nella biblioteca di Ferrara, ma arrivare a tale importante scoperta è partita da un'importante traccia ubicata nell'opera di Ludovico Ariosto "L'Orlando Furioso": poema scritto in ottave, come il nostro poema cavalleresco, dove il letterato della città estense dice che Orlando ha strappato l'elmo al suo nemico Almonte proprio sull'Aspromonte. A questa importante affermazione la relatrice Carmelina Sicari aggiunge un'altra importante traccia: quella di Andrea Barberino autore di un poema "L'Aspromonte" dove descrive le gurre tra cristiani e saraceni indicando un esatta ubicazione geografica: lo sbarco dei barbareschi nei pressi del torrente Calopinace, interessante ricordare anche che l'Ariosto attinse al poema epico-cavalleresco reggino non soltanto per la citazione l'elmo di Orlando preso sull'Aspromonte) ma anche quella di Bradamante, la guerriera da cui discenderà la stirpe degli Estensi, è Gallicella, la guerriera che poi sposerà Ruggiero di Risa (Reggio), il solo che è riuscito a sconfiggerla nelle armi.L’opera letteraria di un anonimo che poteva essere o un trovatore o un maestro d'arme appartiene al filone carolingio delle "Chançon des gestes" (come la famosa "Chançon de Roland") anche se di certo vi è la penetrazione normanna che si era consolidata nel Sud della Penisola e che ha in Reggio il suo punto centrale di interesse In tale opera cavalleresca si narra che Reggio, chiamata Risa, sede di un tesoro fattovi seppellire da Annibale, descritta come fastosa ed importante città cristiana, del suo castello ed un eroe invincibile e santo, tale Ruggero di Risa, il cui corpo rimase intatto anche dopo il suo decesso.
Alla corte di Carlo Magno giungono emissari dall'Oriente per trattare e minacciare lo scontro definitivo che partirà dall'Aspromonte. Le truppe cristiane si preparano e Rolandino, l'Orlando ancora giovane, vuole unirsi ai paladini, ma tutto ciò non gli viene consentito per la sua giovane età ma egli riesce a fuggire dal castello di Reggio unendosi coi paladini nello scontro finali contro i mori. Si combatté intorno alla città e nei combattimenti si distinsero Ruggieri che si innamorò della guerriera moresca Gallicella, Namo, altro eroe cristiano che salendo sulla montagna uccise il Grifone, miticoRolandino uccise nei cruenti scontri l'eroe saraceno Almonte.

fonte www.circoloculturalelagora.it

Locri: la fine del castello teotino, la nascita dell'ospedale di locri

No cari amici, non è una delle solite fiabe che una volta si raccontavano ai bambini prima del calar della notte.
Piuttosto è una, breve e concisa storia di un Castello, un bel Castello che sorgeva dove ora è ubicato l'Ospedale Civile di Locri.
Anzi, per meglio dire, fu esso stesso adibito a nosocomio prima che sorgesse la nuova costruzione, ma poi, per far spazio al costruendo nuovo ospedale, e con molto rispetto dei “beni culturali”, fu allegramente abbattuto dalle ruspe un bel mattino, di buon ora, verso la fine dell'anno 1970.

La storia

Il Castello Teotino era una villa signorile che sorgeva sulla collina di contrada Verga, ad una quota di 55 m sul livello del mare, costituito da un edificio centrale isolato e da una serie di bassi edifici rurali circostanti.
Esso aveva l'aspetto di un fortilizio possedendo 3 piccole torri con una merlatura ghibellina. Tutt'intorno a se, a mo di decorazione, un giardino esotico.
Sebbene il Castello risalisse ad epoche diverse il nucleo principale portava, sulla porta d'ingresso, la data di fondazione: A.D. 1846.
In quel tempo i primi geracesi di avvicinarono alla zona marina per dare origine all'attuale Locri ed in contrada Verga era sorta una vasta casa coloniale di campagna circondata da uliveti, agrumeti e vigne.
Verso la fine dell'Ottocento un erede del fondatore, Francesco Teotino, sposò la baronessa Marianna del Balzo Squillacioti e la villa di conseguenza fu ristrutturata e trasformata in Castello.
Negli anni 30 il Teotino, a causa di cattive operazioni commerciali, si vide costretto a cedere molta parte delle sue proprietà che furono messe all'asta e acquistate dal commendatore Rocco Capua. Dall'incanto vennero esclusi i fondi portati in dote dalla moglie, fra cui Contrada Verga con annesso Castello in questione.
Successivamente il Capua comprò anche tali beni, con esclusione del solo Castello.
Rimasto in possesso del solo Castello, il Teotino lo amministrò fin verso la fine del 1946 quando, ormai ammalato,e acciaccato dagli anni, morì.
Fu allora che gli eredi Teotino, anche per saldare grossi debiti di tasse non pagate, si risolsero a vendere il Castello che venne acquistato dal Comune di Locri.
Come appare dalla figura, all'atto di vendita, il Castello aveva attorno a se un'area di pochi metri quadri e 7 piccole costruzioni la più vasta delle quali era un frantoio con annessa casa colonica.
Due costruzioni (la 2 e la 3) erano usate come stalla e deposito di foraggi e tali costruzioni furono subito abbattute per ricavare spazio interno.
Per quanto riguarda lo stato dell'edificio centrale, ossia il castello, la metà sud di esso era edificata con mattoni pieni, (blocchi squadrati e malta cementizia), mentre la metà nord era stata edificata in modo affrettato e con materiale vile comprendendo anche i mattoni di fango chiamati “ bresti”.
A ciò si aggiunga che gli edifici in questione erano anche danneggiati dal bombardamento del 1943.
Il Castello, subendo anche alcune ulteriori modifiche, fù sede dell'Ospedale di Locri.
La nuova struttura adibita a nosocomio, fu aperta il 1 settembre 1949 e rimase tale fin verso l'autunno del 1970 allorquando le ruspe iniziarono in maniera repentina il suo abbattimento .

fonte da: www.giovanilocride.net